Le prigioni di Trump e Hillary

Le statistiche del sistema penale americano fanno tremare le vene. Le politiche securitarie degli anni ottanta e novanta su droga e immigrazione hanno portato a tassi di carcerazione impazziti, concentrando nelle prigioni americane quasi il 25% della popolazione detenuta nel mondo. Tra il 1980 e il 2008 il numero delle persone incarcerate è quadruplicato, schizzando da 500.000 a 2.3 milioni, un milione dei quali sono afroamericani, il cui tasso di carcerazione è di quasi sei volte superiore a quello dei bianchi. Se consideriamo complessivamente il numero di detenuti in carcere, quelli liberi sulla parola o sottoposti a qualche forma di probation, si conclude che quasi il 3% della popolazione americana è sottoposto a una forma di controllo correzionale. Carcerazioni di massa, tassi di recidiva altissimi, questione razziale e una lunga scia di sangue lasciata dalle forze di polizia sono solo alcune delle conseguenze di un sistema al collasso.

Barack Obama ha provato a invertire la tendenza intervenendo sui minimi di pena obbligatori con il Fair Sentencing Act, con provvedimenti rivolti a implementare la riabilitazione dei detenuti e abbattere la recidiva e con un uso massiccio della clemenza verso i condannati per reati di droga non violenti, preparando il terreno a una riforma del sistema – condivisa in alcuni suoi aspetti dai repubblicani – il cui esito dipenderà da chi verrà dopo, tra Hillary Clinton e Donald Trump. Le posizioni dei due candidati sono agli antipodi: Trump è assestato sulla linea paura-repressione mentre Clinton, intervenendo nel luglio 2015 alla convention della National Association for the Advancement of Colored People, ha dichiarato che è necessario prendere atto dell’esistenza di una questione razziale nella giustizia penale, che la carcerazione di massa va combattuta e il sistema ripensato perché genera povertà per la società americana, per le famiglie dei detenuti e per i detenuti stessi che hanno scontato la pena, con costi proibitivi per i contribuenti. «Una riforma complessiva, senza mezze misure», ha detto la Clinton pochi giorni fa a Charlotte nel North Carolina, uno dei battleground states delle prossime elezioni, dove due settimane fa Keith Lamont Scott è stato l’ennesimo afroamericano vittima della polizia.

La posizione di Trump è molto diversa. Nel primo dibattito elettorale ha accusato la candidata democratica di non avere il coraggio di usare un paio di parole – «law» e «order» – senza le quali non si può avere un paese sicuro, ma l’impressione è che il suo programma sia orientato verso un “order” e “order”, con la propensione a individuare nelle minoranze etniche la principale causa di insicurezza delle città americane. Trump ha criticato duramente Obama per i provvedimenti di clemenza, per la riduzione dei minimi di pena obbligatori – riforma condivisa dal Partito Repubblicano – e persino un provvedimento con cui in Virginia è stato concesso il diritto di voto a 200.000 detenuti. Ma il tratto distintivo di Trump è la sua visione della società americana, una nazione in cui criminalità e violenza sono fuori controllo. Nel suo programma non c’è traccia di una proposta strutturata di riforma del sistema, non ci sono posizioni chiare su temi come l’isolamento carcerario, la giustizia minorile o programmi di riabilitazione per ridurre la recidiva, ma solo la rappresentazione di una nazione allo sbando, in mano a gang di immigrati irregolari. Il suo modello di sicurezza è la New York di Rudy Giuliani, e per questo è favorevole al ritorno dello «stop and frisk», la procedura usata dalla polizia di New York che consisteva nel fermare le persone per la strada, interrogarle e perquisirle alla ricerca di armi.

«Cammini per la strada e ti sparano», sostiene, anche se le statistiche dicono il contrario: dagli anni novanta a oggi i tassi di criminalità negli Stati Uniti sono scesi sensibilmente, e anche negli ultimi due anni sono rimasti all’interno di questa tendenza. Ma le ragioni di tale ridimensionamento non sono legate alle politiche di carcerazione di massa e alla repressione indiscriminata. Secondo un rapporto del Brennan Centre for Justice, queste politiche hanno avuto un effetto limitato nella riduzione dei tassi di criminalità fino agli anni novanta, e un effetto inesistente a partire dal 2000. In ogni caso il sistema penale viene oggi considerato  sproporzionato, socialmente ed economicamente insostenibile e irrimediabilmente contaminato da un pregiudizio razziale. Da questo punto di vista Trump, al di là degli slogan su legge e ordine e la difesa a oltranza del secondo emendamento, non propone soluzioni per la riforma dell’apparato repressivo, a differenza di Hillary Clinton, per cui il sistema va riequilibrato, riducendo lo spazio della giustizia penale, i minimi obbligatori di pena, rafforzando i programmi di reinserimento sociale e sciogliendo una volta per tutte questo legame perverso tra questione razziale e istinto securitario.

La necessità di una riforma è ormai entrata nel dibattito pubblico ed è largamente condivisa da un fronte politico che va dai repubblicani a Black Lives Matters: la sua disuguaglianza e la sua insostenibilità appaiono irrecuperabili dopo decenni in cui ci si è rivolti a repressione e prigione come unica soluzione per combattere il crimine, ignorando studi e statistiche sull’efficacia delle misure alternative nel ridurre la recidiva e prevenire la criminalità. I tassi di criminalità negli Stati Uniti sono a un minimo storico ma Donald Trump racconta agli americani un paese che non esiste, inventandosi quello spazio vuoto, sospeso tra la realtà e la sua percezione, in cui si giocheranno anche queste elezioni presidenziali.