Me lo aveva detto mio padre

Dove sia la vittoria non saprei, ma la lettura del dibattito che sotto questo bizzarro titolo si è sviluppato su Left Wing mi spinge a portare, come si dice in questi casi, una testimonianza personale. Una testimonianza che può forse essere utile, se non a recuperare la fiducia perduta, almeno ad allargare un po’ il quadro.

Vedete, io vengo da un’educazione cattolica e da un imprinting politico centrista, sviluppatosi poi in lievi spostamenti verso destra e sinistra a seconda dell’emergere di posizioni e programmi che mi parevano di volta in volta particolarmente interessanti e condivisibili. Crescere cattolico e centrista – e, aggiungerei, figlio di figli della Bassa padana – significa, in poche parole, avere la chiara consapevolezza che il mondo è un impasto inestricabile di idealità e morchia e che solo un lavoro intelligente e paziente, che con la realtà faccia sempre i conti, può giungere a cavare da quell’impasto qualche forma intelligibile e benefica. Insomma, essere consci che la politica è la fallibile arte del realisticamente possibile.

Tangentopoli fu il mio primo vero momento di militanza, che mi vide schierato a difesa della politica, del Parlamento, dei partiti, contro il giacobinismo giudiziario. Nel 1994 votai, turandomi il naso, per l’unica opzione che ritenevo votabile, cioè per il Polo della Libertà, la Cosa che aveva occupato lo spazio devastato del voto centrista. Poi mi stufai di turarmi il naso e vagai per qualche tempo in una preoccupata indifferenza. Tornai a interessarmi di politica quando vidi riemergere, con un sentimento di schifo estetico e rigetto razionale, la medesima antipolitica dei primi anni 90, in forma di vaffanculo. Nel frattempo, Berlusconi s’era rincoglionito e non aveva generato altro, da quella parte, che un circo Barnum di impresentabili, bigotti e fascisti. Ancora una volta votai, turandomi il naso, per l’unica opzione che ritenevo votabile, cioè per il Pd allora bersaniano. L’approccio fu reso meno traumatico dalla piacentinità del segretario, che mi sembrò costituire una piattaforma antropologica comune con le mie origini bassopadane e con la mia piacentinità acquisita per ragioni di famiglia e lavoro. Il Pd, allora, mi apparve come l’unico baluardo di ragionevolezza e serietà in un quadro politico impazzito. Accolsi poi con attenzione e un certo sollievo l’emergere di Matteo Renzi, che rispostava verso casa mia, cioè verso il centro, quella costellazione. Ho sostenuto, pur senza eccessivo coinvolgimento, la sua ascesa alla guida del partito e del governo. Ho condiviso i suoi pur imperfetti tentativi di riformare il paese. Ho incassato la bella vittoria delle europee e la cocente sconfitta del referendum.

Ora, sto vedendo il mondo impazzire e mettere in serio pericolo quella fragilissima bolla di benessere, sicurezza, pace, che il lavoro paziente e tenace di tanti statisti e di interi popoli ha garantito per settant’anni, tra alti e bassi, a una buona fetta di mondo, facendone una speranza anche per l’altra fetta. Ho visto negli ultimi mesi, in micidiale sequenza: appassire l’ideale dell’Unione europea sotto l’effetto della Brexit, dell’ascesa della Le Pen, del fascismo ungherese, dell’inettitudine di una classe dirigente che va avanti a discutere di risibili minchiate; gli Stati Uniti ridefinire in un afflato di egoismo e xenofobia il loro ruolo secolare di “leader del mondo libero” e trasformarsi – forse irreversibilmente, a prescindere dalla durata della presidenza Trump – in qualcosa di totalmente nuovo e, francamente, un po’ spaventoso; l’avvio di un braccio di ferro planetario tra Stati Uniti, Russia, Cina che ricorda tanto, in scala maggiore, gli attriti dell’età dell’Imperialismo, che furono preludio del Novecento barbarico; il mio paese perdere l’occasione di trasformarsi in un sistema più efficiente e governabile in nome di un irresponsabile sentimento antipolitico cavalcato da comici psicopatici e fascisti in camicia verde, un sentimento condiviso da milioni di miei concittadini pronti ad applaudire e, quel che è peggio, a votare gente che è capace di dire senza tentennamenti né vergogna che sarebbe meglio che Starbucks non venisse in Italia a investire e a dare lavoro perché «il caffè italiano è molto molto molto migliore rispetto a quello che ci vorrebbero rifilare ‘sti fenomeni che arrivano da oltreoceano», o che in nome della trasparenza chiede urne di plaxiglass in cui far eleggere candidati scelti e destituiti dall’interno di opacissimi regimi del leader unico.

Di fronte a questa catastrofe nazionale e planetaria, l’unica cosa che potrebbe – forse – salvarci sarebbe un programma di grande visione globale: rilanciare il progetto europeo estendendolo a una vera governance comune in termini di difesa, fisco, politica del lavoro, gestione dei flussi migratori, ovvero provare a dimostrare nei fatti che è possibile infilare le mani, con pazienza e tenacia, nel fango della realtà e tentare di cavarne qualcosa di buono, di liberale, di progressista, a tutela dei diritti e del benessere di tutti, adottando scelte solidali, benevole e razionali al tempo stesso. In poche parole, rilanciare il progetto di un progressismo moderno, fatto di qualche buona idea e tante buone pratiche. Rispondere al vaffanculo con la responsabilità, al feroce vomito fascista con parole di libertà e inclusione. A margine: dare anche un paio di schiaffi ai democratici americani, per svegliarli dal torpore e dal trauma e far sì che si preparino per bene alle prossime decisive battaglie senza cadere in errori già fatti da questa parte dell’oceano.

Ma invece di tutto ciò, che cosa fanno i leader dell’“unica opzione votabile” di cui sopra? Litigano per il congresso. Minacciano scissioni. Rischiano di devastare l’unico e ultimo supporto della bolla che ci protegge dal disastro. E in nome di che cosa? Volete sapere come appare tutto ciò da fuori, agli occhi di qualcuno che, come credo milioni di elettori italiani, non viene da “dentro” il mondo della sinistra italiana, ma guarda a esso, ora, come all’unica ragionevole speranza rimasta sulla piazza? In nome di ego, orgogli e manfrine. In nome di niente che sia, anche minimamente, rilevante.

Me lo aveva detto mio padre di non fidarmi dei comunisti.