La vittoria del Lingotto

Il quarto congresso nazionale del Partito democratico sarà ricordato come quello che ha superato la fusione fredda. Non solo perché il passare del tempo riduce il peso delle provenienze, ma soprattutto perché si tratta del primo congresso del Pd all’epoca del proporzionale e della Terza Repubblica. Oggetto del congresso quindi non è più solo l’esigenza di selezionare la leadership che si candida alla guida del governo, ma anche definire identità, valori e classe dirigente con cui quel leader si propone alle future elezioni politiche. D’altra parte l’esito del referendum e le sentenze della Corte costituzionale ci obbligano a trovare un nuovo punto di equilibrio al nesso tra governabilità e rappresentatività. In un congresso questo non avviene solo con i documenti o gli ordini del giorno conclusivi, ma soprattutto attraverso i discorsi, i simboli, le immagini e le emozioni che un evento politico collettivo produce.

Da questo punto di vista il Lingotto è stato un evidente successo, perché è stato il primo atto politico di una nuova stagione che dimostra come, dopo le sconfitte, il Partito democratico può riorganizzarsi senza disperdere il patrimonio storico che rappresenta e le speranze di cambiamento che ha suscitato in questi dieci anni. Le tre giornate del Lingotto hanno inoltre chiarito che il principale partito italiano non è allo sbando; ha un leader da candidare e una maggioranza attrezzata a sostenerlo. Sia le proiezioni del voto degli iscritti sia l’insieme dei sondaggi dimostrano che quella che si è riunita a Torino non è solo una delle tre mozioni, ma anche quella che, secondo tutte le previsioni, definirà il baricentro politico del Pd nei prossimi anni. È una responsabilità grande che va esercitata con la giusta misura da un gruppo dirigente che, dopo il Lingotto, acquisisce nuova forza, ma non deve dimenticare che è ancora convalescente per le ferite riportate.

Il primo effetto concreto si vede sul governo Gentiloni, che torna a essere a tutti gli effetti un governo politico a guida Pd, con buona pace di quanti pensavano di poterlo trasformare in una riedizione dei governi tecnici. I temi del dibattito del Lingotto, in plenaria come nelle commissioni di lavoro, condizioneranno in modo diretto agenda e decisioni del governo anche durante il congresso, che non può essere considerato fino al 30 aprile una zona franca dove ognuno, dalla propria postazione, decide in solitudine. Sulle privatizzazioni come sull’immigrazione, sull’Europa come sulla giustizia, starà al governo la capacità di misurarsi e mettersi in sintonia con il dibattito che si svilupperà nel Pd. Con il Pd nel suo insieme più che solo con i gruppi parlamentari.

In questi anni il Parlamento “specchio del Paese” ha avuto due elementi deformanti. Il primo è stato quello dell’abnorme premio di maggioranza, poi corretto dalla Corte. Il secondo, tutto interno al Pd, quello prodotto dalla fortissima asimmetria tra i gruppi parlamentari formatisi nella segreteria Bersani e gli organismi dirigenti del partito frutto della vittoria di Renzi nel 2013. Siamo quindi dentro un finale di legislatura che va maneggiato con cura, senza pensare che il peso parlamentare consenta di forzare gli orientamenti che il partito si formerà attraverso il dibattito congressuale.

Quanto al congresso, è importante che la mozione Renzi sappia trasferire la novità politica del Lingotto sul territorio per sollecitare un contributo “dal basso” al processo politico che porterà al voto del 30 aprile. La discussione sulla mozione congressuale, il dibattito tra personalità di culture politiche differenti, la promozione di una effettiva rappresentatività dei territori, la capacità di fare scelte oggettive per premiare capacità e merito saranno il banco di prova della nuova segreteria Renzi, che oggi seleziona i dirigenti del partito, domani le candidate e i candidati alle elezioni politiche. Ci sarà attenzione nell’opinione pubblica per le scelte che si faranno sul partito, proprio perché saranno intese come propedeutiche alle scelte per le elezioni. Tra le altre cose questo comporta una forma di organizzazione del pluralismo interno diversa dal passato.

I promotori della mozione congressuale che si candida a essere maggioranza del Pd con Renzi segretario non possono intendersi come semplici organizzatori di sottoinsiemi della mozione da tutelare nel congresso. Non serve a questa fase un lavoro politico “a canne d’organo” dall’alto verso il basso, né nascondersi dietro la forza della leadership di Renzi. Un gruppo dirigente forte, autorevole e plurale intorno alla leadership di Matteo Renzi non si determina per concessione ma si afferma nel fuoco di una battaglia politica vera. Io penso che valga la pena esserci. Ognuno con le proprie idee e la propria forza.