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Il nome del blu

Cara Left Wing,
non so se hai letto la storia del nuovo blu senza nome. C’è questo chimico della Oregon State University che facendo inavvertitamente casino con degli ossidi e un forno si è ritrovato a creare un blu inesistente in natura. Dicono che sia la prima tonalità di blu nuova in duecento anni. Naturalmente non ci è voluto moltissimo perché si trovasse una forma di sfruttamento commerciale e quindi un’azienda chiedesse alla Food and Drug Administration il permesso di vendere le matite del nuovo blu dopo i test di tossicità. Altrettanto naturalmente l’azienda in questione si è trovata di fronte al problema del nome da dare al colore, ché mica puoi mandare il bambino in cartoleria e costringerlo a indicare col dito incerto: «Quella, no, più a destra, ecco, quella lì». Per ovviare all’imbarazzante situazione, l’azienda ha fatto ricorso alla soluzione più inflazionata del nostro tempo e ha indetto un concorso aperto al “popolo del web”: il vincitore verrà premiato con la bellezza dell’equivalente di cento dollari in matite colorate e l’azienda avrà messo il suo marchio su un pezzo dell’ineffabile. Chi ci guadagna di più in tutta la faccenda lo lascio decidere a te.

La storia in sé non è niente di che ma mi ha fatto pensare. In tempi appena meno sciagurati dei nostri il compito di dare il nome alle cose era dato agli artisti, agli scrittori, ai poeti: il fanciullino di Pascoli, quello che riesce a dire ciò che tutti hanno sulla punta della lingua ma nessuno riesce a esprimere; oppure, agli antipodi dell’arco costituzionale dei letterati, il minimalista di Carver, quello che niente trucchi per favore, quello che le parole sono l’unica cosa che abbiamo, quindi è meglio che siano quelle giuste. Lo so, pure gli uffici marketing ci mettevano del loro: ma sappiamo che erano tempi nei quali, a fronte di un ragioniere che in dieci minuti trovava il nome da dare all’ultima Fiat («Che ore sono? Una e ventisette? Bon, fatto, dai che adesso ho da chiudere la prima nota») c’erano fior di letterati presenti e futuri che si guadagnavano da vivere trovando nomi ai nostri sogni – pensa a uno come Vonnegut, tanto per fare un esempio.

Insomma, c’era sempre qualcuno che si spremeva proprio per quello, per dare un nome alle cose del mondo, fossero queste oggetti, sensazioni, aspirazioni. Oggi invece lo spirito del tempo impone la consultazione popolare: un sacro blog, un referendum, un contest, un instant win. A un certo punto qualcuno è stato in grado di convincerci che non c’è più bisogno di quelli bravi, di quelli più bravi degli altri, che basta chiedere in giro e l’intelligenza collettiva e diffusa compenserà il genio non disperso ma rifiutato, la competenza non svanita ma respinta. La cosa fantastica, cara Left Wing, non è che qualcuno sia riuscito a teorizzare questa fesseria ma che milioni di fessi – noi inclusi, diciamocelo – l’abbiano presa per buona, come se 2500 anni di storia non ci avessero insegnato che non c’è democrazia senza Pericle, non c’è dittatura del proletariato senza Lenin, non ci sono i campioni Nba senza LeBron James.

Caro Pilu, si sbaglia. In ben più di 2500 anni di storia, dalle primissime forme di linguaggio umano fino ai giorni nostri, dare i nomi alle cose non è mai stata prerogativa di artisti, filosofi o poeti, i quali hanno potuto prendersela solo occasionalmente, in casi rarissimi e giustamente venerati. Insomma, se parliamo una lingua e ci capiamo è proprio ed esclusivamente grazie al fatto che dare il nome alle cose è prerogativa dell’intelligenza (o stupidità) collettiva, e di nessun genio solitario in particolare. E lo stesso vale per la democrazia. Sì, certo, abbiamo capito anche noi cosa intendeva dire con il suo esempio. Ma restando al caso specifico – il compito di dare nientemeno che il nome a un colore – lei è proprio sicuro che rivolgendosi a un “poeta laureato” il risultato sarebbe migliore? E lei, qui e ora, a chi si rivolgerebbe? Ci pensi un minuto e vedrà che l’idea del referendum online, in questo caso, non le apparirà più così malvagia.