L’élite dell’aria che vibra

Bello il titolo scelto da Marco Tutino, compositore e organizzatore teatrale, per raccontare la sua storia di ragazzo che sceglie la musica come professione: Il mestiere dell’aria che vibra (Ponte alle Grazie). Un racconto che ha diversi pregi, come le pagine di «istruzioni per l’uso» di quel complesso artigianato di lusso che è l’opera lirica. Il cuore del libro è una proposta di politica culturale e artistica che parte da una piccola storia musicale, quella della corrente neoromantica. Nell’aprile del 1981, poco prima di diplomarsi, Tutino scrive una lettera aperta al suo insegnante di allora che viene pubblicata sulla rivista Musica/Realtà, proponendo un nuovo modo di scrivere musica antitetico  alla musica d’avanguardia e post avanguardia, accusata  di essere divenuta un linguaggio elitario e autoriferito, ideologico, incapace di confrontarsi tanto con il passato quanto con la molteplicità di linguaggi del presente. Il destinatario della lettera è Giacomo Manzoni, musicista, grande intellettuale ed esponente di primo piano dell’avanguardia italiana.

Nasce così il movimento neoromantico: giovani compositori che invocavano una musica che recuperasse valori della tradizione (da qui neoromantici) e insieme alla forza comunicativa sapesse acquisire tecniche e modalità dai generi più diversi, dal pop al jazz, dal rock alla musica da film. Fu scandalo, polemica e conflitto. Nel 1985 al  Teatro Carlo Felice di Genova va in scena la prima opera composta da Marco Tutino: Pinocchio. Quando il compositore esce sul proscenio per gli applausi si scatena il putiferio, con urla e insulti contro di lui e tra oppositori ed estimatori. Ai compositori dell’avanguardia e post-avanguardia Verdi, Puccini e colleghi apparivano obsoleti prodotti della incolta borghesia italiana e mal tolleravano chi ne recuperava il valore.

Oggi, dopo avere assistito alla Rossini Renaissance, al ritorno di Verdi e al dimenticatoio per tanti esponenti di quell’avanguardia, ora eseguiti  quasi solo per interesse storico-culturale, forse è giunta l’ora di una riflessione esplicita del mondo intellettuale-artistico. Del resto, non ha lasciato capolavori eterni neppure  il movimento neoromantico, né il futuro dell’“aria che vibra” sta solo nella reinterpretazione del patrimonio creativo dei duecento anni del melodramma italiano. Una riflessione critica e la ricerca di strade nuove si impongono a partire proprio dalla capacità di quest’arte di interpretare il mondo e di parlare al pubblico. Senza una simile capacità, la funzione sociale dei teatri d’opera svanisce e nessun provvedimento normativo o organizzativo gliela restituirà mai. In giro per il mondo l’opera è vissuta e cresciuta anche dopo Turandot senza divenire autoreferenziale. Le ipotesi di lavoro sono diverse. Ad esempio tornare al racconto, perché la musica fondata su se stessa non esiste – anche un quadro astratto è una storia – o immaginare nuovi contesti per arrivare a più persone, in forme più moderne, con nuove tecnologie. Dopo aver dato al cinema, alle sue origini, lo schema narrativo dell’opera, tentare il processo inverso.

Su una cosa, in particolare, sono d’accordo con Tutino: la pretesa di utilizzare linguaggi musicali fondati su dogmi assoluti è ideologismo allo stato puro, buono per le correnti estetiche, inutile per le funzioni intellettuali e creative. Ogni mezzo è buono per creare, dipende da ciò che si vuole raccontare e dall’emozione che si vuole comunicare. È ora di chiudere la querelle tra le estetiche della musica, per utilizzare tutto ciò che abbiamo creato, tenendo a mente il pubblico non solo e non tanto perché paga il biglietto (che non è poco), quanto perché, nel momento in cui si mette in ascolto, rappresenta l’umanità a cui l’artista propone la sua parola. Il conflitto di trentacinque anni fa tra neoromantici e avanguardia si è spento da solo, il libro di Tutino lo ripropone attraverso la sua personale storia creativa, ed è una buona occasione per rifletterci su.