Come uscire dal Fiscal Compact

La probabile prossima integrazione delle regole del Fiscal Compact nei trattati europei – prevista, vale la pena ricordarlo, dallo stesso Fiscal Compact – costituisce un’importante occasione per aprire una discussione sulla riforma dell’attuale governance economica europea. Se pochi anche all’interno delle istituzioni comunitarie ormai credono che il Patto di stabilità e crescita possa avere un futuro nel suo stato attuale, non si può non rendergli almeno l’onore delle armi, riconoscendogli il merito di aver reso politicamente possibile la creazione dell’Unione monetaria e l’introduzione della moneta unica. Tuttavia, non si può negare che esso non sia stato in grado di produrre né stabilità né crescita, e abbia determinato nel corso degli anni danni non piccoli al già fragile impianto democratico delle istituzioni europee. Di fronte alla seria crisi istituzionale, di legittimazione e di gradimento popolare in cui versa l’Unione economica e monetaria, occorrerebbe un ripensamento critico che eviti pure operazioni di maquillage e che si concentri invece su quelle che sono state le tre principali debolezze di questo impianto.

La prima è la mancanza pressoché totale di un qualsivoglia legame fra il livello dell’indebitamento e il livello del deficit, con una attenzione sproporzionata e ingiustificata su quest’ultima variabile. La seconda è la pro-ciclicità delle regole, che di fatto finiscono per imporre sacrifici maggiori quando l’economia va male e sacrifici minori quando va bene. La terza è la complessità e l’arbitrarietà di tutte le regole legate alle variabili strutturali/potenziali che non sono direttamente osservabili e che – proprio per questa loro aleatorietà – fanno rientrare dalla finestra quella discrezionalità politica che era stata messa faticosamente fuori dalla porta. L’applicazione più flessibile delle norme del Patto di stabilità avviata con la comunicazione della Commissione europea del gennaio 2015 ha avuto l’indiscutibile merito di consentire un risanamento più ragionato e compatibile con il rilancio della crescita economica, nonché di puntellare il pericolante edificio della governance macroeconomica europea che sembrava sull’orlo della deflagrazione. Ma di fatto ha spogliato di qualsiasi credibilità interna ed esterna quelle regole, rendendole preda di negoziati bilaterali o multilaterali fra governi e Commissione.

Che fare? Una prima risposta a tutte queste debolezze prova a darla Luigi Marattin oggi sul Sole 24 Ore. Sintetizzando selvaggiamente, Marattin propone di prendere atto delle mutate condizioni macroeconomiche prevalenti e di innalzare dal 60% al 90% il target di rapporto debito/Pil, legando i sentieri di aggiustamento dei livelli di indebitamento all’andamento del Pil nominale dei cinque anni precedenti. Dato il debito iniziale e definito il percorso di rientro, il livello di deficit che ciascun paese dovrebbe realizzare si definirebbe di conseguenza. L’aggiustamento annuo del debito non dovrebbe essere inferiore all’1% e non dovrebbe essere comunque superiore al 5%, e sono previste serie sanzioni nel caso di mancato rispetto di queste regole. Al netto dell’idea di innalzare il target del debito pubblico – che potrebbe essere l’aspetto più controverso, ma paradossalmente meno problematico, della proposta – l’idea di Marattin ha il grande merito non soltanto di superare la rozzezza, l’inefficacia e la dannosità delle attuali regole, ma di eliminare anche buona parte della pro-ciclicità dei vincoli attuali, legando la velocità di aggiustamento all’andamento economico: più cresci e più devi correggere, meno cresci e meno devi aggiustare.

Una potenziale debolezza della proposta è che il percorso di rientro del debito (e quindi il livello del deficit) è determinato interamente sulla base degli andamenti passati e sulla base di un intervallo di tempo abbastanza lungo. A parità di livello di indebitamento, un paese che negli ultimi cinque anni abbia avuto una crescita nominale robusta ma calante nel tempo, e che magari si avvii a sperimentare una fase di crescita anemica, si troverebbe a dover effettuare una correzione di debito più ambiziosa e costosa di un paese che invece sta affrontando una situazione diametralmente opposta. Una possibile correzione potrebbe essere, da un lato, quella di dare maggiore peso agli anni più recenti nel calcolo della media del Pil nominale e, dall’altro, di definire il percorso di aggiustamento del debito tenendo conto anche del Pil nominale atteso.