Il cerchio e la botte del caso Consip

L’unica cosa che emerge inequivocabile dall’inchiesta Consip, anche a prescindere da declinazioni golpiste, è che una parte dei funzionari pubblici (pubblici ministeri, carabinieri, poliziotti, finanzieri) che indagano su reati e malversazioni ritiene normale (cercando di dire l’enormità che segue nel modo più pacato possibile) dare energia al proprio lavoro giocando di sponda con l’opinione pubblica. Alcuni fanno risalire il fenomeno agli anni 80 e 90, quelli del terrorismo e delle stragi mafiose, quando pareva necessario spezzare l’assedio delle catene di omertà e complicità che, dopo decenni di mancato ricambio della classe dirigente, tenevano per la gola il Paese.

E dunque allora si sarebbero svolte indagini in un clima non “normale”, ma come per una guerra di liberazione in cui l’indagine giudiziaria e la pubblica gogna mettevano alle strette consolidati assetti di potere. Ovviamente i mass media vissero in quegli anni la loro stagione eroica giacché allestivano il palco dove il pubblico da casa contemplava la lotta fra il Bene e il Male. Con copioni e scalette supportate dai documenti giudiziari (e ancora non era esploso il filone delle intercettazioni!).

Quella guerra è ancora in corso? Da parte di chi e contro chi? E, domanda principale, è ancora una guerra con obiettivi strategici o siamo, come capita dopo le guerre, a bande di guerrieri divenuti nel frattempo mercenari, che arrecano turbolenza alla vita della società e delle istituzioni?

La domanda riguarda sia l’ambiente degli inquirenti sia quello dei media. Circa il primo lasciamo il passo a chi se ne intende più di noi. Riguardo ai media constatiamo la assenza, salvo rarissime rondini che non fanno primavera, del giornalismo investigativo, che sarebbe quello, molto costoso, in cui si scopre e si spiega una realtà altrimenti coperta e ignota ai più. E che è altra cosa rispetto al giornalismo da quattro soldi che narra le investigazioni in corso insaporendole con deposizioni, intercettazioni, più o meno trasparentemente acquisite, ma di sicuro effetto spettacolare. È tuttavia scontato che questo tipo di giornalismo, pur di riempire pagine e palinsesti, depone la funzione di potere Quarto nei confronti del potere giudiziario dal quale anzi attende i rifornimenti della “roba” cui i redattori (e i bilanci delle aziende editoriali) si sono assuefatti.

Da qui discendono, pensiamo, i colpi distribuiti fra cerchio e botte che trapuntano – senza ombra di analisi autocritica per il ruolo di utili idioti svolto nell’affaire Consip e non solo – gli editoriali odierni di Massimo Franco sul Corriere della Sera e del direttore Mario Calabresi sulla Repubblica. Per non dire del direttore del Fatto che gioca addirittura l’ipotesi del contro-complotto, attivato dalla bionda pm di Modena, quella a cui Scafarto e il suo capo Ultimo parvero un po’ invasati oltre che invasi (“una bomba!!!”) da battute da bar o, come si dice meglio oggi, a livello di talk-show. Del resto è normale che, a forza di praticarsi, anche i linguaggi finiscano col somigliarsi.