Oltre il veltronismo

Gli ultimi congressi dei Ds e della Margherita sono stati celebrati, la fase costituente del Partito democratico finalmente aperta, le chiacchiere sulla “fusione fredda” e la “somma di apparati” già indirizzate verso il mercato secondario della politica e dell’informazione, assieme a obbligazioni svalutate e altri titoli di credito in attesa di ricollocazione.
La discussione è stata certamente lenta e faticosa: Massimo D’Alema e Romano Prodi avanzarono la proposta nell’estate del 2003, il primo congresso del Partito democratico è previsto nella primavera del 2008. Alla fine, se tutto va bene, ci saranno voluti cinque anni. Un’intera legislatura.
Il Partito democratico è però il compimento di un percorso ancora più lungo, che rimonta alla crisi della Repubblica nel biennio ’92-93, esattamente quindici anni fa. Non deve stupire, pertanto, che il dibattito che ha accompagnato la sua costruzione sia stato infestato da tutti i fantasmi degli anni Novanta. Era inevitabile. Oggi come allora, infatti, nel centrosinistra si confrontano due linee, che nascono da due opposte letture della crisi e indicano di conseguenza due opposte vie di uscita. Da un lato sta il Partito democratico come compimento della rivoluzione del ’92-93, vista come salutare reazione della società civile al predominio dei partiti che l’avevano oppressa per cinquant’anni – tutti insieme appassionatamente, senza distinzioni – edificando un regime corrotto, dedito alla sistematica spoliazione dei suoi cittadini. Questa sarebbe l’ingloriosa storia della Repubblica nata dalla Resistenza (e dai partiti che fecero la Resistenza e la lotta nella clandestinità, mentre gran parte della società civile si accomodava sotto il fascismo, chi alla meno peggio e chi molto meglio). Una lettura che si è affermata sull’onda degli scandali giudiziari e delle campagne di stampa contro la “partitocrazia” e il “consociativismo”. Una lettura, sia detto per inciso, che ricalca perfettamente – a cominciare dal lessico – quella che per cinquant’anni è stata la propaganda neofascista contro la democrazia repubblicana.
Gli ultimi cantori di questa triste epica senza eroi degli anni Novanta – senza eroi perché senza politica, delegando le funzioni rivoluzionarie a pubblici ministeri e guardia di finanza – sono i più grandi sostenitori di Walter Veltroni. Non a caso per Veltroni il Partito democratico è legato indissolubilmente alla possibilità di una nuova legge elettorale maggioritaria e di nuove riforme istituzionali secondo il modello del “sindaco d’Italia”, così da assoggettare definitivamente i partiti alla leadership carismatica di un premier eletto direttamente dal popolo, dotato del potere di sciogliere le camere, capo indiscusso (e indiscutibile) di un partito-coalizione ridotto a suo personale comitato elettorale.
Se la crisi del ’92 è stata la salutare reazione della società civile al predominio dei partiti; se i problemi dell’Italia di oggi sono da ricondurre semplicemente alle categorie di stabilità e governabilità del sistema politico; se insomma l’origine di tutti i problemi sta ancora e sempre nella resistenza offerta dai partiti – nonostante tutto – ebbene, quella resistenza va stroncata. Dall’alto e dal basso: attraverso la costruzione di un regime elettorale-plebiscitario e attraverso la scorciatoia populista, da cui la retorica dei valori. Una retorica manichea – come manicheo è sempre il discorso populista – che mal si concilia però con la propaganda veltronista del leader moderno e al passo coi tempi, fondandosi sostanzialmente sull’identificazione tra “essere di sinistra” e “essere buoni” (si veda in proposito il disarmante intervento di Veltroni al congresso dei Ds).
A questa linea si contrappone la posizione di chi invece immagina il Partito democratico proprio come primo passo verso una ricostruzione del sistema politico e una compiuta democrazia dei partiti. A partire da una lettura della crisi del ’92 come collasso di un intero sistema – politico ed economico – conseguenza del venir meno di quell’ordine internazionale che ne aveva consentito e alimentato l’anomalia. L’interpretazione etico-giudiziaria della crisi della Repubblica è infatti fuorviante, perché non tiene in alcun conto le cause reali all’origine di quel grande terremoto, che sole spiegano come il sistema abbia potuto durare per cinquant’anni e poi crollare improvvisamente.
Quando i veltronisti parlano di “fusione fredda” e “somma di apparati” è a questa linea che fanno riferimento, incarnata non a caso da quello che resta dei partiti storici della Repubblica: la Democrazia cristiana e il Partito comunista. Una linea che per affermarsi ha dovuto però riconoscere innanzi tutto i propri limiti. Il primato della politica, infatti, non si può “restaurare” per decreto, bollando come antipolitiche o qualunquistiche posizioni che sono invece squisitamente politiche. Quel primato non può essere restaurato, ma soltanto riaffermato nella lotta politica, nella capacità dei partiti di riconquistare il consenso dei cittadini su una linea di riforme democratiche, che liberi gli uni e gli altri dalla tutela e dai condizionamenti dei poteri irresponsabili, che dagli elettori non sono tenuti e non hanno bisogno di passare. A questo serve, secondo noi, il Partito democratico. E per questo è giusto che si chiami così.
Bipolarismo e alternanza, primarie a tutti i livelli, identificazione tra leadership e premiership sono gli strumenti concreti di quella riforma democratica della politica che costituisce l’unica reale alternativa alla scorciatoia populistica e plebiscitaria (una posizione in parte diversa, su questo punto, è esposta qui da Ignazio Vacca). Se la fase costituente del Partito democratico avrà questo segno, chiamando a iscriversi milioni di italiani – e quindi a votare e a decidere – allora sarà davvero il primo passo di un autentico processo di rigenerazione della politica e dei partiti. Il primo passo oltre le stucchevoli polemiche sul vecchio che arretra e il nuovo che avanza, oltre l’incantesimo degli anni Novanta e oltre il veltronismo, “fusione fredda” di tutte le più decrepite formulette di quella effimera eppure eterna stagione.