La cellula e i suoi proprietari

Creazione della vita artificiale, si dice. Ma, si obietta, non è affatto creazione e non è neppure vita. Non è creazione, perché la creazione procede ex nihilo, mentre nel caso del Mycoplasma mycoides JCVI-syn 1.0 c‘è del materiale di partenza: i composti chimici necessari per sintetizzare le molecole; e non è neppure vita, perché la vita consiste in molto più che non il suo motore. Quel che si sarebbe infatti ottenuto nel laboratorio di Craig Venter è solo la sostituzione del motore principale di una cellula (il suo Dna) con un motore del tutto artificiale, ma la vita non si risolve nel funzionamento del motore, e d’altra parte Craig Venter non ha ancora potuto produrre la cellula ospitante il Dna. Resta che è artificiale, certo, ma a questo ormai ci abbiamo fatto il callo – o forse no, a pensarci bene, perché se fosse artificiale non porrebbe problemi etici di sorta; e invece pare proprio che li ponga, e bisognerebbe allora che fosse una roba naturale, e quindi almeno un po’ vitale. Ma anche così, si prosegue, siamo solo alla cellula, un esserino piccolo piccolo: di strada da fare per fortuna ancora ce n‘è.
Orbene, prima di valutare queste obiezioni, raccontiamo una storia.
Ci fu qualche secolo fa una grossa disputa intorno alle cosiddette forme sostanziali, di cui oggi nessuno più si ricorda. I novatores dell’epoca non ne avevano mai vista una, di codeste sostanziali forme delle cose: loro si occupavano della materia e delle sue parti, di quel che poteva risultare dall’urto di parti materiali e di come questi urti si producessero, e di nient’altro. Materia e solo materia: nessuna forma. Veniva loro facile decretare perciò che le forme delle cose, le forme per cui le cose sono o sarebbero quello che sono, non hanno proprio nessuna realtà sostanziale: semplicemente, non esistono. La cosa dava scandalo, e creava non pochi grattacapi ai primi, impertinenti pionieri della moderna scienza della natura. Fra di essi c’era anche il filosofo Descartes, che del corpo umano tutto intero aveva addirittura osato pensare che non è che una macchina, senza il contributo speciale di forme di alcun tipo. Però Descartes era un uomo assai prudente, e anziché sfidare apertamente il sapere filosofico-teologico dell’epoca preferì trarsi di impaccio sostenendo che lui di forme sostanziali non ne sapeva nulla, che per lui potevano pure esserci, in gran numero e più vispe che mai: solo, preferiva non valersene. Liberi voi di pensare che tutte le cose hanno una forma che ne costituisce la ragion d’essere e il fondamento ultimo; libero io, ragionava Descartes, di ignorarle bellamente, e di tenere in conto solo le mie ipotesi teoriche e le eventuali risultanze sperimentali.
Torniamo a noi, o meglio all’ultimo mirabolante annuncio di Venter. “Da oggi cambia il punto di vista sulla definizione della vita”, ha dichiarato lo scienziato, non avendo un grammo della prudenza di Descartes. Avesse detto invece: “Io non voglio cambiare il punto di vista di nessuno: continuate pure a ritenere che la vita sia un’altra cosa, magicamente inafferrabile e alquanto indefinibile, che nulla ha a che fare con i nucleotidi da me sintetizzati artificialmente; lasciatemi però dire che cosa questo mio microrganismo nuovo di zecca può combinare, e che cosa potranno combinare gli altri organismi, o come diavolo volete chiamarli, che sarà possibile produrre grazie alla tecnica che ho messo a punto (e grazie alla tecnica in generale). Tenetevi pure le dispute filosofiche sulla vita, sulla frontiera fra naturale e artificiale, o sull’organico e l’inorganico; io non metterò becco in nessuna di esse, ma mi limiterò (si fa per dire) a coltivare le mie popolazioni di batteri specializzati, se possibile brevettandoli in modo da farci pure qualche soldo” – avesse detto qualcosa del genere, ci sarebbe stato ben poco da obiettare. Filosofi e teologi avrebbero potuto comunque ritenere di avere ancora in serbo per sé l’essenziale, sottratto per definizione alle diavolerie ingegneristiche di Venter. E però, proprio come a Descartes non fu affatto consentito di tenere mascherati i suoi intenti, perché era a tutti chiaro che se le forme sostanziali non contavano nulla e non gli si faceva combinar nulla, avevi voglia a dirle esistenti, di fatto quelle erano del tutto spacciate: inutili, inservibili e quindi morte – allo stesso modo, è inutile dire che la vita è un’altra cosa: se il Dna programmato in laboratorio fa tutto lui, con quell’altra cosa che è la Vita, qualunque altra cosa sia, puoi forse riempirti la bocca, ma alla fine è bella e spacciata pure lei.
E allora? Allora propongo un’altra storia, questa volta non dal passato ma dal futuro. Immaginate che qualcuno bussi alla vostra porta e vi comunichi di avere creato un organismo in tutto e per tutto uguale a voi: cosa penserete? Secondo me, c‘è poco da fare. Se c‘è un individuo in tutto e per tutto uguale a me, allora è me. Tuttavia di mio c‘è anche il fatto che io sono io, e non quell’altro: c‘è non l’unicità (quell’altro è uguale), ma la rivendicazione dell’unicità – che d’altronde nutrirà pure quell’altro, il quale, proprio perciò, sarà un altro.
E tanto basta. O meglio: non è che non sorgeranno, grazie a Venter e ai suoi seguaci, nuovi problemi etici, nuovi pensosi interrogativi sui limiti della scienza, nuove angosce sul potere che è nelle mani degli uomini, e così via spaventando, ma questi sono nell’essenziale risolti se solo si bada al fatto che la vita a cui teniamo è la vita individuale, e che per noi uomini l’individuazione di una vita è, nell’essenziale, l’atto di parola con cui ci appropriamo della nostra vita.
Quel che invece non è affatto risolto è non l’interrogativo circa il “che cos‘è” la vita, ma per l’appunto quello relativo invece al “chi” se ne appropria, se noi stessi per noi stessi o chi altri per noi: su quello, molto più che su tutto il resto, forse è il caso di fare attenzione, che si tratti degli annunci di Venter o di chiunque altro.