Leonardo Sciascia e i democratici

Proviamo a dare ragione a Leonardo Sciascia in ciascuno dei momenti in cui il suo confronto con il Pci si è fatto teso, aspro, polemico, e dopo aver tutto concesso vediamo se una qualche essenziale ragione non stesse comunque dalla parte del Partito comunista. Emanuele Macaluso ha scritto un libro che ce ne offre l’occasione: “Leonardo Sciascia e i comunisti” (Feltrinelli). Libro bello, intenso, a tratti vibrante di commozione: per esempio nelle prime pagine, che raccontano come alcuni giovani siciliani si avvicinassero al Pci negli anni della resistenza al nazifascismo, e in quelle finali, quando Macaluso ricorda il suo ultimo incontro con Sciascia già gravemente provato dalla malattia, ma ancora animato dalla passione civile. E Macaluso si vede bene che vorrebbe dare a Sciascia, all’amico, ancor più ragione di quanta non gliene diede in vita. E ha molti motivi per farlo. Uno soprattutto. Alla domanda se al Partito democratico non servano oggi le idee di Sciascia, risponde che sì, servirebbero eccome: “Nell’elettorato di sinistra negli anni di Tangentopoli, del processo ad Andreotti e dell’avvento di Berlusconi, con le sue avventure giudiziarie, è maturata una deriva giustizialista che si traduce nel convincimento che ciò che appare impossibile conseguire con la politica sia possibile ottenerlo nelle aule giudiziarie”. Questo convincimento è profondamente errato e le idee di Sciascia sarebbero molto servite a contrastarlo, sia detto senza nessuna indulgenza verso “la tendenza nell’elettorato di centrodestra a negare valore alla legalità”, e senza nessuna tenerezza verso certo “garantismo peloso” (sempre parole di Macaluso), di comodo, di parte, in nulla animato dal “senso di giustizia” dello scrittore siciliano, che oggi circola opportunisticamente attorno a Silvio Berlusconi. Se bisogna tornare sul caso Tortora, sul processo di Torino alle Br o sulla polemica coi professionisti dell’antimafia per dire che il giustizialismo di Arlacchi e Orlando o di Di Pietro e De Magistris c’entra molto poco con la storia della sinistra italiana (almeno fino allo spartiacque del ’93), come si dice: si può concedere totum, senza perdersi nei particolari.
Ma tutto ciò concesso, c’è da rispondere a un’altra domanda. Per formulare la quale basta una funzione insatura: una forza politica come il Pci, domanda nel libro Macaluso. E non importa come continui, non importa come voglia completare la domanda; importa semplicemente che vi compaia il concetto di “forza politica”. Questo concetto non può infatti essere compreso nel vocabolario di Sciascia senza contraddizione: per lui, spiega infatti Macaluso, “il potere, chiunque lo eserciti, è comunque incompatibile con la libertà dell’uomo”. Se è così, una forza politica, proprio in quanto forza, non può essere che ingiusta. Anzi, per il Pci era casomai vero il contrario, che la libertà dell’uomo è incompatibile con l’assenza di masse organizzate e di istituzioni pubbliche a difesa e promozione di quella libertà. L’intero tragitto della storia repubblicana e della democrazia nel nostro paese non sarebbe stato percorso senza un simile convincimento – esso sì tutt’altro che errato, a meno di non giudicare errata l’Italia tutta (che è cosa, peraltro, che gli intellettuali a volte amano pensare).
Ma il diritto, si dice. Sciascia lo diceva con parole simili a quelle di Blaise Pascal: è Pascal, d’altronde che fissa per lui l’asticella del giudizio sul cristianesimo. E cosa diceva Pascal, a proposito di forza e giustizia? In una celeberrima pensée, questo: “Non potendosi fare che il giusto fosse forte, s’è fatto in modo che il forte fosse giusto”. Questo è lo scandalo di ogni potere, per Sciascia: che il forte piega a sé il diritto. Vedendo però solo questo lato dei rapporti tra la forza e la giustizia, Sciascia non poteva vedere la possibilità di intendere la critica del diritto – e dell’ideologia giuridica – in una forma meno sterile della pur nobilissima denuncia morale. E cioè in quella forma che non vede nella forza il gorgo in cui precipita ogni istanza di giustizia, ma prova invece, con senso di responsabilità storica, a qualificare quella forza, orientandola nel senso del progresso: nell’unico modo cioè in cui si possono effettualmente legare alla giustizia, così cara a Sciascia, anche l’uguaglianza e la libertà.
Del resto, c’è un pensiero di Sciascia al quale non possiamo rinunciare, e nella cui eredità ci si può ben collocare. La democrazia, diceva, non ha bisogno di rinnegare se stessa per combattere la mafia. Giusto. Ma di cosa abbia bisogno la democrazia per essere se stessa e sostenersi in quanto tale, questa è una domanda persino più fondamentale, alla quale il Pd, se vorrà continuare a pensarsi come “forza politica”, sarebbe bene che cominciasse a cercare una risposta. E chissà che dopo tante ricerche e tante innovazioni non la trovi dove meno se l’aspettava, e cioè in una parte dell’eredità repubblicana, quella dei tanto vituperati partiti politici, che oggi nessuno sembra in grado non diciamo di raccogliere, ma nemmeno di rivendicare.