Un partito normale

Matteo Renzi ha capito che sull’elezione del presidente della Repubblica non poteva pensare di stravincere. Per questo ha stravinto. Ha ottenuto il risultato che aveva annunciato: l’elezione di Sergio Mattarella. Quando lo aveva annunciato: al quarto scrutinio. Come lo aveva annunciato: con una maggioranza larghissima, appena sotto i due terzi. Ma soprattutto ha clamorosamente smentito tutte le leggende nere che in tanti avevano provato a ricamare intorno al famigerato patto del Nazareno, con cui, dicevano, avrebbe fatto risorgere Silvio Berlusconi. Semmai, ce lo ha crocifisso.

Dal voto sul nuovo capo dello stato il centrodestra esce, letteralmente, in pezzi. Tre partiti, tre posizioni: Ncd faticosamente schierato per il sì a Mattarella, Forza Italia per una rispettosa scheda bianca, la Lega per un’irrispettosa sequela di attacchi personali. A cominciare ovviamente da Matteo Salvini, ansioso di conquistare posizioni tra le macerie della leadership berlusconiana. Quanto al partito del Cavaliere, esce dall’elezione del presidente della Repubblica persino peggio di come ne uscì il Pd nel 2013: diviso, deriso e depresso. E, a differenza del Pd nel 2013, pure all’opposizione.

In molti, dentro Forza Italia e fuori, individuano la prima causa della disfatta nell’avere accettato di approvare la legge elettorale in Senato prima del voto sul Quirinale, avallando definitivamente lo spostamento del premio di maggioranza dalla coalizione alla lista. Di sicuro, l’uno-due di Renzi su Italicum e presidenza della Repubblica ha colpito duramente prima il centrodestra in quanto tale e poi l’unica leadership che in questi venti anni si era dimostrata capace di tenerlo unito. La destra italiana si scopre così all’epicentro di un sisma che minaccia di seppellire definitivamente la Seconda Repubblica. Il fatto che l’ultima scossa porti il nome di Mattarella, come la legge elettorale maggioritaria da cui quella stagione prese il via, è solo uno dei molti paradossi di questa strana vicenda.

Non meno paradossale è infatti che a chiudere il ventennio berlusconiano sia quello che tanti indicavano come il suo figlio prediletto. Il “royal baby”, secondo la definizione di Giuliano Ferrara. Se così fosse, sarebbe davvero un figlio degenere. Ma se allarghiamo lo sguardo all’intero sistema politico di questi vent’anni, di cui il berlusconismo è stato una parte essenziale, ma non il tutto, a ben vedere Renzi si conferma piuttosto l’Adolfo Suárez della Seconda Repubblica.

Come il giovane e rampante segretario del Movimento Nacional scelto da Juan Carlos per guidare la transizione era sembrato all’inizio il miglior garante del franchismo, e lo aveva invece seppellito in quattro e quattr’otto, così si può dire oggi dell’ex sindaco di Firenze. Anche Renzi, nel salire alla ribalta, non aveva mancato di ripetere nessuna delle formule tradizionali della Seconda Repubblica, dall’immancabile difesa del bipolarismo alla necessità di farsi eleggere direttamente dal popolo per andare a Palazzo Chigi (contrariamente al dettato costituzionale, e a quello che avrebbe fatto poco dopo). Una retorica che del resto continua a caratterizzare l’intera partita delle riforme. Da questo punto di vista, però, il fatto che Mattarella venga da quella stessa Corte Costituzionale che ha giustiziato il Porcellum suona perlomeno come un buon auspicio. Quanto al fatto che quella sentenza, a suo tempo, sia stata selvaggiamente criticata da tanti ideologi del bipolarismo, nonché dallo stesso Renzi, è un altro di quei paradossi di cui speriamo ci dimenticheremo tutti al più presto.

Dopo essere stata divisa per quarant’anni dalla linea di frontiera della guerra fredda, che tagliava in due campi non solo la politica ma anche la società, la cultura e l’informazione, l’Italia degli anni novanta ha trovato nel bipolarismo di coalizione il surrogato del bipolarismo internazionale Usa-Urss. La lunga stagione che speriamo di lasciarci finalmente alle spalle si è retta infatti su una versione domestica della guerra fredda: la divisione manichea tra berlusconiani e antiberlusconiani. Un’alterità antropologica che all’indomani del crollo della Prima Repubblica ha preso il posto del Muro di Berlino, puntellata dai residui di una propaganda anticomunista che solo con Renzi è finita veramente in soffitta. Non per niente, il suo primo atto da segretario ha sancito l’ingresso del Pd nel Pse e la sua ricollocazione in Europa nella lotta su due fronti, da un lato contro l’austerità e per la flessibilità, dall’altro contro il populismo anti-euro.

All’ultima mano della partita per il Quirinale, insomma, il leader del Pd non ha rottamato solo Berlusconi e il centrodestra, ma anche una certa idea dello “spirito dell’Ulivo”. La scelta del vecchio democristiano di sinistra Sergio Mattarella non è infatti in contraddizione, ma in piena continuità con questo indirizzo, che punta al tempo stesso a europeizzare il nostro sistema politico e a ricollegarlo con le sue tradizioni migliori, rottamando l’anomalia delle coalizioni-partito e dei partiti-coalizioni degli ultimi venti anni. Checché ne dica lo stesso segretario del Pd, infatti, il “Partito della Nazione” era quello che c’era prima, e si chiamava Ulivo. Tanto è vero che anche dopo la nascita del Pd, persino i suoi dirigenti usciti direttamente da Botteghe Oscure dovevano stare attentissimi a non definirlo mai un partito di sinistra, bensì, semmai, di centrosinistra. Mentre la verità è che non era un partito. Bensì, semmai, una coalizione. Anche e soprattutto quando si chiamava già Partito democratico, ma continuava a muoversi e a concepirsi come la versione ridotta della vecchia Unione di centrosinistra, costantemente inchiodato a estenuanti mediazioni tra cattolici ultra-tradizionalisti e radicali ultra-libertari, frange neoliberiste e pulsioni veterocomuniste.

Fortunatamente, la ruota della storia non smette mai di girare. Abbandonate le Frattocchie e ceduta da anni anche la storica sede in via delle Botteghe Oscure, oggi che il leader del Pd non esita a presentarsi da Maria De Filippi con il giubbotto di Fonzie, all’ultimo giro della ruota della fortuna, clamorosamente, a perdere tutto è Silvio Berlusconi.