Per farla finita con l’emergenza infinita

Italia, 2016. Abusando della decretazione d’urgenza in nome di una fantomatica necessità permanente, da quarant’anni il potere esecutivo tiene in ostaggio la normale attività legislativa. Non è la trama di un film di fantascienza ma (come ho raccontato qui) la nostra realtà politica quotidiana. L’articolo 77 della Costituzione, voluto dai padri costituenti come porta d’uscita dalle rigidità imposte dall’ordinamento formale per «casi straordinari di necessità e di urgenza», è diventato uno strumento di governo ordinario, invocato più volte ogni mese anche in assenza di catastrofi naturali. Perché la vera catastrofe è l’ordinamento. Oggi l’esecutivo supplisce al Parlamento perché il Parlamento non è in grado di legiferare in maniera efficace. Da qui sorge spontanea una domanda: non sarebbe più semplice avere un Parlamento che funzioni?

A fronte di una riforma costituzionale che si prefigge di affrontare questo problema, una parte della classe politica ha reagito sventolando improbabili minacce autoritarie. Ma a essere precisamente distopico è lo scenario in cui viviamo oggi. Giorgio Agamben aveva parlato di «stato di eccezione» collegando esplicitamente l’attuale sistema di governo italiano al Patriot Act americano e alla sospensione del diritto ordinario sotto Hitler e Mussolini. L’attuale riforma vuole invece dotare il paese di un sistema di regole che impediscano questo sistematico abuso. Da una parte limita la possibilità di ricorrere all’art. 77 della Costituzione: riducendo le materie su cui è possibile governare per decreto (co. 4), imponendo un maggiore rispetto delle condizioni di urgenza (co. 5) e vegliando sulla coerenza delle misure adottate (co. 7). Dall’altra fornisce ai poteri dello Stato regole operative più precise, talvolta facendo rientrare dalla porta ciò che era uscito dalla finestra: ad esempio nel nuovo art. 72 viene istituita formalmente la possibilità di priorizzare la discussione di un disegno di legge governativo «indicato come essenziale per l’attuazione del programma di governo».

Un paese in cui il Parlamento è stato commissariato dall’esecutivo perché strutturalmente incapace di operare non rischia nessuna deriva autoritaria con una riforma che prova semplicemente a garantirgli l’operatività. Oggi l’attività normativa consiste in un vero e proprio mercato dove si barattano le politiche governative con gli interessi particolari, in una progressione geometrica di favori incrociati: così lentezza e velocità, procedura ordinaria e procedura straordinaria diventano anch’esse condizioni da negoziare. Si pensi alla scena penosa di Renzi in Sicilia costretto a promettere, come ogni governo da circa un secolo pur di ottenere una sorta di sacra unzione, il progetto (ovviamente virtuale) di un ponte sullo Stretto di Messina. Il tutto “al quadrato” dal momento che il percorso di conversione prevede il passaggio dai due rami del Parlamento. Non c’è da stupirsi se persino la banca JP Morgan, assieme ad altri poteri più o meno forti, augura al paese un ordinamento meno imprevedibile al fine di tutelare i propri investimenti. Prima ancora di poter pensare a complottare nell’ombra, i portatori d’interesse vogliono poter calcolare rischi, quantificare costi e prevedere conseguenze, invece di trovarsi ad aprire un manuale di diritto tributario e scoprire che il codice era probabilmente già desueto nel momento in cui è andato in stampa. Ma poiché gli analisti delle grandi banche non hanno la minima idea di ciò di cui parlano, nel loro famigerato rapporto attribuiscono al «socialismo» delle Costituzioni europee gli effetti di quello dovrebbe essere più precisamente chiamato «consociativismo».

La risoluzione di questo problema non è faccenda meramente astratta: poiché il pesce puzza dalla testa questa ferita costitutiva, costituzionale, si ripercuote lungo la spina dorsale del paese marchiando col segno dell’arbitrio ogni aspetto della sua vita politica, giù fino all’esercizio discrezionale del potere repressivo della giustizia e della polizia. Mettendo fine a questo stato di eccezione non si risolvono certo tutti i problemi dell’Italia, ma si fornisce un segnale importante per un paese letteralmente malato di eccezionalismo. Non stupisce che i difensori d’ufficio di questo regime emergenziale tirino ancora una volta in ballo, proprio come negli anni Settanta, una «emergenza democratica». La difesa dell’anomalia italiana ha preso ancora una volta l’aspetto del culto sacrale della Costituzione, quella stessa Costituzione che viene tradita ogni volta che si ricorre al principio di necessità come normale strumento di governo. Oggi l’Italia presenta un evidente scollamento tra il suo ordinamento formale e quello sostanziale, tra il modo in cui le cose dovrebbero andare e quello in cui vanno effettivamente. La Costituzione vigente, in questo senso, è tanto bella proprio perché presenta i tratti di un’opera di fiction — un rassicurante sceneggiato Rai ambientato nel Dopoguerra, con Beppe Fiorello nel ruolo del Parlamento, che nulla ha a che vedere con il modo in cui le cose vanno davvero oggi.

E poi arriva Renzi: che non è un rivoluzionario o il salvatore della patria, ma semplicemente un politico abbastanza presuntuoso da essersi convinto che avrebbe potuto giocarsi la carriera su una riforma lungamente attesa ma politicamente impraticabile. Personalizzando il referendum e illudendosi che bastasse proporre riforme ampiamente condivise, chiamate a gran voce da decenni, talvolta pure piuttosto demagogiche — riduzione dei costi della politica in primis — il premier si era convinto di poter segnare il suo gol a porta vuota. Chi avrebbe mai creduto che gli italiani avrebbero votato contro una riforma che accorpava le principali richieste che erano state formulate nell’ultimo trentennio, dai “poteri forti” ma anche dai cittadini, e così tanto concedeva alle richieste di movimenti come Lega e Cinque Stelle? Gli ultimi sondaggi mostrano addirittura che votando i singoli articoli uno per uno, invece che formulati in un solo quesito, il sì alla riforma vincerebbe di misura. E contrariamente a ogni previsione e a qualche promessa accumulata nei due anni di lavoro sulla riforma, i partiti (inclusa una parte del Pd) hanno preferito sacrificare la politica in nome di una lotta di potere. Da parte mia voterò sì al referendum del 4 dicembre, contro una quarantennale prassi emergenziale e un ordinamento letteralmente catastrofico.