Oval Office

Cara Left Wing,
visto che abiti a Roma ti sarà capitato nelle scorse settimane di vedere le vie della tua città, almeno quelle libere dai materassi gettati dalle brigate anti-Virginia, riempirsi di decine di migliaia di persone venute a seguire prima il Galles e poi l’Irlanda nelle prime due partite del Torneo delle Sei Nazioni. È l’allargamento al Sud del continente del più famoso torneo di rugby del mondo, che infatti si chiamava Cinque Nazioni fino a quando, una ventina di anni fa, il nostro bilancio sportivo non ci permise di farci considerare all’altezza delle quattro nazionali britanniche e dei francesi.

Un po’ com’è successo anche in altri ambiti del nostro rapporto con il resto dell’Europa, per un po’ ce la siamo cavata discretamente; poi abbiamo cambiato classe dirigente (nello specifico il mediano d’apertura nonché uno dei kicker più bravi della storia di questo sport) e da lì è stata tutta discesa, ma a rotoli: una infinita catena di sconfitte, a volte di proporzioni umilianti. E così oggi quelli che un giorno ci accolsero nel club si chiedono se sia stata una scelta oculata (prescindendo dal piacere di farsi un weekend a Roma, che anche se vivi a Parigi non è mai da buttar via).

La cosa strana è che l’Olimpico, dove la nostra nazionale gioca le sue partite, si riempie più per le sconfitte del rugby che per le vittorie di Roma e Lazio: sotto i quarantacinquemila spettatori non si va mai, anche se i tifosi italiani ormai da anni vanno allo stadio con il pallottoliere per contare le mete che la loro squadra subirà dalla Scozia o dal Galles di turno. Siccome de Coubertin è stato messo in soffitta da un pezzo, è da escludere che tanta gente paghi il biglietto perché convinta che l’importante sia partecipare; e allora: perché? Saranno mica tutti elettori di Marco Ferrando, no?

Beh, ti dico come la vedo io. Forse c’è che esistono alcuni momenti speciali nella vita, e sono pochissimi, nei quali provi la sensazione precisa e inspiegabile di fare parte di qualcosa che è molto più grande di te. Succede essenzialmente grazie a due cose, la musica e lo sport (e la politica se abiti a Milano e vince Pisapia). Quei due secondi nei quali Tardelli si passa la palla sul sinistro e tira e tu e tutti gli altri vicino a te vi alzate seguendo la striscia perfetta che entra vicino al palo e gridate e vi abbracciate mentre lui corre impazzito dalla gioia, per dire. O l’istante in cui Jagger grida I can’t get no e tu e tutti gli altri vicini a te rispondete Satisfaction – c’è un bellissimo verso di Lucio Dalla che la dice bene, dice tre milioni e il respiro di un polmone solo.

Succede anche con il rugby, ovviamente: se hai visto Invictus sai di cosa parlo, la finale del 1995 tra Sudafrica e Nuova Zelanda, tra Springboks e All Blacks; non un granché come partita, tre calci a testa nei tempi regolamentari e nemmeno una meta, ma il finale. Ecco, il finale: mancano sette minuti alla fine e la palla arriva ancora a Joel Stransky, l’apertura degli Springboks. E quello calcia un drop. Ora, non è facile fare un paragone per spiegare il drop. È una roba di una difficoltà mostruosa. Ti passano il pallone, tu lo prendi in mano, alzi la testa per guardare dove sono i pali della porta e mentre lo fai vedi quindici bufali inferociti che ti corrono incontro per asfaltarti e tu lasci cadere il pallone e quello deve cadere giusto altrimenti rimbalza come una palla magica e tu hai una microscopica frazione di secondo per calciarlo prima che quelli là ti uccidano, e lo devi fare alla perfezione, un centimetro più in su o più in giù e fai la figura del deficiente, e lo devi calciare forte, fargli fare venti, trenta, quaranta metri e metterlo là, in mezzo a quei due pali e sopra quella traversa. È un gesto di una difficoltà spaventosa. Stransky lo fece, dopo novantatre minuti di corse e botte, e segnò. Prova a immaginare cos’era stare dentro l’Ellis Park Stadium in quel momento.

E poi, forse, c’è che è uno sport di squadra vero. Naturalmente ci sono i ruoli: ci sono i piloni, le ali, le terze e le seconde linee. Come in tutti gli sport ci sono quelli di talento e quelli bravi a far legna, quelli che si prendono le foto e quelli che si prendono le botte, almeno più degli altri. Ma nel rugby sia quando attacchi che quando difendi, e soprattutto quando difendi nei tuoi ultimi cinque metri, quello che si vede è una lunga striscia di quindici uomini con la maglia uguale, tutti sulla stessa linea che si muovono in sincronia come i ballerini di Broadway, tutti un passo a sinistra, tutti due passi a destra, seguendo il movimento del pallone della squadra avversaria. Non c’è uno più avanti o uno più indietro degli altri. Non c’è la star. C’è una squadra. A vederlo dall’alto è bellissimo. E non è solo bello, è – come posso dirti? utile; necessario (negli All Blacks del 1995 giocava un ragazzo di vent’anni. Si chiamava Jonah Lomu ed era il giocatore più forte del mondo. Prima della partita un alto dirigente della federazione neozelandese mandò un fax alla squadra, che recitava più o meno così: ricordatevi che il rugby è uno sport di squadra, quindi tutti devono recuperare il pallone e poi darlo a Jonah. Persero).

Insomma, non so bene perché decine di migliaia di persone continuano a seguire la nazionale di rugby sapendo che perderà. Forse per un pomeriggio decidono di farsi cullare da un’illusione, quella che sia possibile fare le cose in un modo diverso, sentirsi parte di qualcosa che è costruito contro le regole quotidiane. Forse, o forse è solo che il Foro Italico è un gran bel posto, vai a sapere.

Post scriptum. Non è mai bello rovinare una buona storia con la verità, ma forse sarà bene aggiungere che di quella partita si parla ancora oggi, alimentando il sospetto che gli All Blacks furono avvelenati, in modo da indebolirli con una intossicazione alimentare perché il Sudafrica doveva vincere a prescindere dai meriti sportivi – il mondo aveva bisogno di una storia bella da usare come esempio.​ Il nocciolo alla fine non cambia: la squadra contro l’uomo solo al comando; ma il giudizio al riguardo – come mostrano tanti fatti dei nostri giorni – è controverso. Non c’è da stupirsi, in fondo chiamiamo democrazie sia i sistemi proporzionali puri che quelli dove si vince prendendo meno voti degli avversari, è il bello dello stare al mondo.