L’Europa non è finita (e nemmeno la storia)

A noi italiani la vittoria di Emmanuel Macron dice anzitutto due cose: che l’Europa non è finita e che la storia non finisce mai. O almeno: che non finisce mai di sorprenderci. Dopo la Brexit e dopo l’elezione di Donald Trump, la vittoria di Marine Le Pen in Francia sembrava inevitabile. Ma come diceva Keynes: l’inevitabile non accade mai, l’inatteso sempre. E così, al termine di un anno intero dedicato a discutere del montare del populismo nazionalista e della crisi mortale del progetto europeo, ecco che in Francia, il paese che nel referendum del 2005 aveva affossato la costituzione europea, vince il più europeista, riformista e ottimista dei candidati. L’esatto contrario – per formazione e cultura, per biografia e personalità, oltre che per programma politico – del nuovo modello del leader populista arrabbiato, che alimenta l’odio e specula sulla paura.

Tutti i problemi politici, economici e sociali alla base della crisi europea di cui abbiamo parlato fino a ieri sono, ovviamente, ancora lì. Anzi, alla luce del dibattito che il ballottaggio francese ha sollevato, oggi ce n’è forse uno in più. Una parte del mondo politico e culturale della sinistra radicale oscilla infatti tra il vecchio neneismo (né con Macron né con Le Pen) e l’aperta preferenza per l’estrema destra, in nome della lotta al social-liberalismo del banchiere, del tecnocrate, del figlio dell’establishment. A queste prese di posizione esplicite bisogna aggiungere poi il sostegno a denti stretti di quella sinistra che ha seguito fino all’ultimo l’avventura social-populista di Jean-Luc Mélenchon, schierato su posizioni che il Partito comunista italiano aveva superato già negli anni settanta.

La corrente del tanto peggio non è una novità, nella storia della sinistra. C’è sempre stata, nel movimento operaio, una vena nichilista-apocalittica: dai tempi di Marx e Bakunin a quelli di Stalin e della campagna contro i socialfascisti, a quelli di Mao, secondo il quale i comunisti, essendo ai suoi tempi la maggioranza dell’umanità, non dovevano temere una guerra nucleare, ché anzi una brusca riduzione della popolazione mondiale avrebbe visto crescere il loro peso relativo. Tuttavia, dopo avere visto il dibattito televisivo tra Le Pen e Macron, l’idea che una parte della sinistra europea possa avere avuto anche solo la tentazione di schierarsi con la leader del Front National è una novità che fa riflettere. Perché mai come in quello studio televisivo, salvo forse alcuni momenti dell’ultima campagna elettorale per la Casa Bianca, è apparso tanto evidente che lo scontro, ben prima che tra due opposte linee politiche, era uno scontro tra modernità e antimodernità, tra ragione e fanatismo, tra illuminismo e irrazionalismo.

L’idea che una parte crescente della sinistra possa oggi sentirsi ugualmente distante dalle idee liberali del borghese Voltaire e dall’oscurantismo dei nuovi despoti d’Oriente e d’Occidente fa riflettere e fa paura. E dovrebbe far riflettere tanto più in Italia, paese in cui, nel 1949, il segretario del Pci si preoccupava di tradurre personalmente il Trattato sulla tolleranza, pubblicandolo con una sua ampia prefazione. Fin dalle origini, infatti, il marxismo si è considerato l’erede dell’illuminismo, immaginando la rivoluzione socialista come il massimo sviluppo di quell’età della ragione cominciata con la rivoluzione scientifica e proseguita con le rivoluzioni borghesi. Non per niente Marx ed Engels definivano la propria posizione «socialismo scientifico» e l’autore del Capitale, come è noto, era un fervente ammiratore di Charles Darwin.

Quello che oggi divide riformisti e populisti non è dunque una semplice riedizione della vecchia pregiudiziale antifascista, ma qualcosa di più profondo, che riguarda i principi fondamentali della convivenza civile e della democrazia, le basi di un dibattito pubblico razionale e pluralista. Se la lotta interna per spostare a sinistra l’asse delle politiche economiche e sociali dei partiti socialisti e progressisti perde di vista questo essenziale discrimine, il rischio è una crescente divaricazione tra questione sociale e questione democratica, tra sinistra e diritti. Peggio: tra sinistra e ragione. Se in odio a Macron una parte della sinistra finisce per ripetere gli slogan del Front National contro l’Europa dei banchieri, è evidente il pericolo cui siamo di fronte: la saldatura di un nuovo schieramento rosso-bruno che ci porti a una sorta di medioevo ipertecnologico, in cui antiche superstizioni e nuovi stregoni possano diffondersi in tutta Europa con la velocità di un virus informatico. O di un’epidemia di morbillo.

La vittoria di Macron dimostra che questo esito non è inevitabile e le forze dell’irrazionalismo, delle campagne di fango e di dossieraggio, della destabilizzazione interna e internazionale, grazie al cielo, possono essere fermate dal messaggio di coraggio e speranza di un nuovo europeismo progressista. Guai però se questo messaggio finisse per confermare la caricatura che ne vogliono fare i suoi detrattori, abbandonando principi e bandiere della sinistra all’avversario, lasciando la guida dell’Europa ai teorici dell’austerità e gli interessi popolari all’egemonia della nuova destra. La vittoria di Macron dimostra che l’Europa non è finita, ma la partita è appena cominciata.