Niente elezioni, siamo liberali

In premessa sta anzitutto un’analisi ragionata dello scenario economico globale: delle nuove sfide della globalizzazione (così si dice). Per farvi fronte, la vecchia Europa deve ridisegnare – e sta ridisegnando – i sistemi di protezione sociale che ha potuto costruire nel corso del XX secolo in uno scenario geopolitico completamente diverso. Deve riformare il welfare, e i cambiamenti richiesti sono complessi e dolorosi, e per farlo deve toccare diritti e tutele che non possono più essere considerati acquisiti. Questa fase si è aperta dopo l’89, ma la traversata è ancora lunga.
Nelle premesse di un ragionamento che tocca la capacità dei sistemi politici occidentali di compiere questo difficile cammino sta poi la constatazione, non banale, che le democrazie parlamentari sono, purtroppo per loro, esposte alla prova faticosa (e costosa) delle elezioni. La classe politica è così costretta periodicamente a rendere conto dei suoi comportamenti a un elettorato che da quei difficili cambiamenti (ma a quanto pare necessari) viene investito. Deve farlo, per giunta, non potendo esibire i frutti dei sacrifici richiesti, perché essi si situano generalmente in una prospettiva temporale più lontana di quanto non sia la tornata elettorale che, a scadenza più o meno regolare, inesorabilmente l’attende.
Mettete insieme queste due premesse, così come fece con un certo pessimismo Ralf Dahrendorf all’indomani della caduta del muro di Berlino, con riguardo alle giovani democrazie dell’est europeo. Mettetele dunque insieme, valutatene in generale la plausibilità e chiedetevi: qual è la conclusione più ragionevole con cui completare un così persuasivo sillogismo pratico, nella cui stretta sta oggi l’Europa intera? A lume di logica, non v’è alcun dubbio: tenere elezioni soltanto ogni quindici anni. Se infatti gli effetti di una politica si dispiegano in un arco temporale più ampio del tradizionale quinquennio (o quadriennio), e se il governo deve essere valutato per i risultati della sua azione, e questi risultati non possono ragionevolmente essere raccolti in un lustro, bisogna dunque che le elezioni non siano indette a scadenza così ravvicinata, come invece per lo più accade, per insolito attaccamento a un rito, quello elettorale, che non a caso appare sempre più svuotato di contenuto.
Degno corollario di questo ragionamento è poi la considerazione che le elezioni costituiscano un passaggio obbligato, e cioè un male necessario. E il passo è breve, idealmente parlando, perché dal rilevare che i comportamenti politici sono distorti dall’approssimarsi del turno elettorale, e dalla necessità di procacciarsi il consenso, si passi alla ben più netta opinione secondo la quale le elezioni non sono che un elemento di disturbo rispetto al corso più naturale e razionale delle cose. Se per inciso occorresse una controprova, proporrei il seguente esperimento: si domandi ai partecipanti al Vaffa-Day se essi pensano che le elezioni in Italia costano troppo, se ritengono che vengano celebrate troppo di frequente, e se credono davvero che siano mai “servite a qualcosa”. Ho paura che la fiducia nelle risorse del voto democratico ne uscirebbe alquanto ammaccata.
Ma sto divagando. Prima occorre far presente un altro pensiero che potrebbe sempre più scriversi nelle cose, ancor prima di essere effettivamente pensato e fatto proprio da qualcuno. Eccolo: se le elezioni sono un inciampo, se politico è peraltro – almeno nei paesi democratici – colui il quale deve la propria legittimazione alle elezioni, non sarà (o non potrà apparire) che rispetto a un qualunque problema che la classe dirigente di un paese debba affrontare, meglio sarebbe rivolgersi ad una figura non politica perché sia essa a indicare le possibili soluzioni? Ancora una volta, stiamo procedendo sul filo di una sana e pragmatica ragionevolezza. Mentre infatti la soluzione proposta dalla politica sarà inevitabilmente condizionata dalla preoccupazione della rielezione, il tecnico si suppone che non abbia di questi ingombri, e che possa quindi indicare la soluzione solo in ragione della sua specifica competenza. Il non dover rendere conto all’elettorato diviene perciò un titolo di merito: una garanzia di imparzialità e obiettività che solo il tecnico può esibire.
Abbiamo quasi completato il quadro. Che per essere così disegnato non ha bisogno – come s’è visto – né delle invettive di Beppe Grillo né dei dati raccolti ne La casta di Stella-Rizzo, clamoroso successo editoriale dell’anno. Il discredito della classe politica è un rischio congenito dei regimi parlamentari, che ne soffrono sempre, ma che si fa tanto più alto quanto più sono favorite, dal contesto interno ed esterno, istanze di legittimazione diverse da quelle politico-democratiche. I più onesti contro i più votati. I più bravi contro i più votati. E poco importa che non sia facile decidere, senza un voto, chi sia il più onesto o il più capace: è sufficiente che si possa accusare di incapacità o di disonestà chi prende i voti e regola i suoi comportamenti politici in funzione del voto. Tanto è sufficiente, che spesso questa critica non va disgiunta dal voto a chi viene così criticato. Quel che però il ragionamento che abbiamo preso in prestito da Dahrendorf indica come un possibile pericolo per i paesi a democrazia fragile rimane di gran lunga lo scenario peggiore che ci si possa augurare, per quanti indecenti voli di Stato siano compiuti con i soldi dei contribuenti.
Naturalmente è ben possibile che la classe politica italiana abbia superato ogni soglia tollerabile di incompetenza e di disonestà. Resterebbe da capire perché, come mai, per responsabilità di chi, per il coalizzarsi di quali interessi, per il convenire di quali fattori, per l’intreccio di quali nodi non solo politici. In tal caso, allora, è vero – come è stato autorevolmente suggerito – che quando il dito indica la luna, è stolto guardare al dito, ma non lo è del tutto guardare quali mani puntino il dito. Da ultimo lo ha fatto, mi pare, il presidente della Repubblica, il quale ha ricordato quel che i mass media dicono di se stessi, che cioè essi si limitano a raccontare e riflettere. “Ma – ha aggiunto – bisogna vedere come lo fanno”.