L’ultimo samurai dell’altra America

Se Master and Commander è il primo film neocon, e il capitano Jack Aubrey la prima rappresentazione del dilemma del nuovo potere americano, costretto a tagliare i cavi con la retorica dell’America vincente e sicura di sé che va dagli anni Ottanta sino all’11 settembre 2001, L’ultimo samurai è innanzi tutto il film dell’altra America, e il capitano Nathan Algren l’ultima rappresentazione di quella sinistra radicale che l’11 settembre ha messo definitivamente ai margini della scena politica statunitense.
I due protagonisti impersonati da Russell Crowe e Tom Cruise rappresentano infatti i poli opposti della coscienza statunitense. L’eroe e l’antieroe di quell’America che è nata nelle strade – come recitava il sottotitolo di Gangs of New York – in un processo di ridefinizione dell’identità attraverso la violenza che il cinema hollywoodiano, dopo la caduta delle Torri gemelle, riflette incessantemente sugli schermi di tutto il mondo. Non a caso Nathan Algren è un reduce della prima grande guerra “costituente” della storia e dell’identità americana, quella contro gli indiani. E’ l’eroe impavido e pluridecorato, ma disgustato dalle atrocità commesse e tormentato dal rimorso – anche questo un topos del cinema impegnato alla Oliver Stone – che non esita a denunciare la follia dei suoi comandanti e della guerra. Persino il generale Custer era un pazzo avventato, dice, responsabile della morte di tanti suoi giovani compagni. Una morte inutile, pare di capire, per una causa sbagliata. E appare superfluo aggiungere – dopo parole simili – come sarebbe finito il nostro ultimo samurai dell’America radicale sulla nave del capitano Aubrey. Ossessionato dalle immagini delle mille stragi di indiani innocenti, il capitano Algren finisce invece a fare il fenomeno da circo – proprio come Buffalo Bill – alcolizzato e senza un soldo. Così lo vediamo all’inizio del film, poco prima che lo spietato ufficiale responsabile di quelle stesse atrocità che tormentano la sua coscienza gli offra un nuovo, altrettanto disonorevole impiego. Partire per il Giappone e qui addestrare l’esercito del perfido magnate Omura, consigliere del giovane e debole imperatore, per guidarlo contro la rivolta dei samurai. L’ultimo erede degli eroi di Little Big Horn accetta, ma solo per denaro, discendendo così l’ennesimo gradino dell’abiezione prima della catarsi. Dietro il loro accordo, inutile dirlo, si muovono interessi ben più corposi e inconfessabili: quelli degli Stati Uniti nella fornitura di armi al sovrano giapponese e quelli del ricco industriale Omura, che lo controlla come un pupazzo. Ogni riferimento alla politica statunitense in America Latina, in Medio Oriente e nel resto del pianeta difficilmente potrebbe considerarsi meno casuale. Appena giunto in Giappone, il capitano Algren comincia a divorare libri sulla storia e la cultura dei samurai. L’interprete che lo accompagna si entusiasma nello scoprire in lui un “collega linguista” e gli chiede dunque degli indiani, confessando la propria fascinazione per la brutale usanza dello scalpo. Ma la conoscenza del capitano – a differenza di quella dell’innocente naturalista di Master and Commander – gronda sangue, violenza e dolore, e la sua risposta è veemente e indignata. Il nostro antieroe mercenario e fallito vuole solo conoscere il suo nemico, dice, non è interessato alla ricerca. Per lo stesso motivo, quando sarà catturato dai samurai guidati dal misterioso Kasumoto, verrà lasciato in vita: “Voglio conoscere il mio nemico” gli dirà infatti l’unico eroe positivo, senza macchia e senza secondi fini del film. Per lo stesso motivo Kasumoto trattiene i suoi quaderni di appunti sugli indiani, con gli schizzi di alcuni capi tribù così simili a quelli dell’altro eroe tollerante del cinema americano: Balla coi lupi. Ospitato nel villaggio del samurai, Tom Cruise troverà la pace interiore, si disintossicherà dall’alcol e dormirà il suo primo sonno tranquillo e senza incubi. Imparerà il giapponese, l’arte della katana, si innamorerà della donna che ha reso vedova. “Ditemi solo: che cosa trovate di tanto detestabile nel vostro popolo?” gli domanderà al momento della separazione il cinico ufficiale che lo aveva portato con sé. Ma l’accusa di disfattismo, intelligenza con il nemico e antiamericanismo non merita risposta. A differenza del Piccolo grande uomo interpretato da Dustin Hoffman o del Balla coi lupi di Kevin Costner, infatti, il capitano Algren porterà la sua scelta sino alle estreme conseguenze, indossando l’armatura e impugnando la katana del samurai – che non si disonora con le armi da fuoco della vile e corrotta società occidentale – e marciando contro il suo stesso ex ufficiale, schierato al fianco del corrotto magnate Omura con tanto di divisa statunitense.
Lo strappo è compiuto, ma l’ultimo samurai dell’America radicale e pacifista – quella che ha votato per Nader ed ora fa il tifo per Dean – sa di non poter vincere contro “la modernità in armi”. Prima ancora che la forza materiale, è lo spirito del tempo che soffia contro di lei. Perché il tempo dei samurai è finito, con l’illusione di una “via antica che si sposa con la nuova”, come Kasumoto fa incidere sulla katana del capitano. E l’unica alternativa che le resta è quella tra un onorevole harakiri e il ritiro tra le montagne di un villaggio sperduto, dove il tempo pare essersi fermato.