Platone e la biblioteca di Google

Uno, due, tre… tanto! Così cominciamo a contare: dopo il tre, da bimbi, ci si spalanca immenso e indeterminatissimo un “tanto” in cui c’è veramente di tutto. Ora, dinanzi all’annuncio di Google di rendere accessibile su Internet “istantaneamente e gratuitamente” i volumi delle biblioteche delle università di Harvard, Stanford, Oxford, di quella del Michigan e della New York Public Library, si rimane a bocca aperta come i fanciulli che fummo. Poiché Google, che offre già circa nove miliardi di pagine consultabili sul web, si appresta a scannerizzare milioni di libri in pochi anni. Libri che finiranno nei più capienti contenitori oggi disponibili: terabyte, petabyte, exabyte, zettabyte, yottabyte. Solo per dare un’idea: uno yottabyte può immagazzinare dati equivalenti a 180 miliardi di volte l’intera biblioteca del Congresso.
Ci troviamo dunque dinanzi a una svolta epocale: tutta la conoscenza del mondo in un affare piccolo come un iPod, tutto lo scibile umano in formato tascabile. Non sarà la prima volta, comunque, che si svolta, anche se i giornali tendono ad accreditare svolte epocali a ogni cambio di stagione. Una svolta almeno altrettanto epocale visse da protagonista tal Platone ateniese, il quale non smise mai di scrivere la sua profonda diffidenza nei confronti del mezzo che veniva adoperando: la scrittura, appunto. Quando Platone scrive il Fedro, sono trascorsi appena due secoli da che la scrittura ha fatto la sua comparsa in Grecia, e benché il suo uso si sia già consolidato non è ancora divenuta pratica abituale. Ora, nel Fedro, al cospetto del re Thamus, il dio Theuth, che della scrittura e di altre diavolerie come i numeri, la dama e i dadi è l’inventore, per vantare la sua mercanzia a proposito dell’alfabeto dice che esso “renderà più sapienti” e “aumenterà la memoria”. Nell’annunciare al mondo una biblioteca virtuale globale, l’amministratore delegato di Google Eric Schmidt non parla diversamente dal dio Theuth. Al quale però Thamus risponde (ed è Platone, per bocca del re): tutto il contrario! Lungi dall’aumentare la memoria, la scrittura produrrà oblio nelle anime, che non dovranno più trarre da se stesse quelle cose che potranno comodamente conservare nei segni dell’alfabeto. Altro che rimedio! La scrittura è veleno, che intossica l’anima e le sottrae il bene più prezioso, svuotandola di memoria. (I più attenti sapranno che, in greco, uno stesso termine significa rimedio e veleno: pharmakon, cioè medicina. E così, non volendo, Platone ci dice en passant qualcosa anche a proposito dei dibattiti contemporanei sui rapporti fra bioetica, tecnica e medicina). A che servirà più ricordare, quando la scrittura potrà farlo al posto nostro? Cosa dovremo conservare più a mente, se potremo conservare tutto su una tavoletta?
Ora, non accade qualcosa del genere anche adesso? Perché imparare, se tutta la conoscenza di cui posso avere bisogno può stare comodamente nel mio taschino? E perché leggere, se c’è Internet?
Se la prospettiva di conservare l’intero scibile umano in dvd procura disagio, è dunque perché siamo ancora inguaribilmente platonici, e come Platone tremiamo al pensiero (che intravediamo al fondo di qualunque mirabilia tecnologica) che una macchina senz’anima possa sostituirsi a noi in tutto e per tutto. Nonostante tutto l’impegno profuso, da Nietzsche in poi, per farci smaltire le dosi di platonismo ingurgitate abbondanti per un paio di millenni, il nostro riflesso verso la tecnica è ancora di tipo platonico. Come Platone (o come la professoressa di matematica, che alle medie proibiva l’uso delle calcolatrici durante il compito in classe) temiamo che lo hypomnesis “il mezzo per richiamare alla mente” (che un tempo era il segno alfabetico e che oggi è il byte), invece di aiutarci, finisca col sostituirci. La stessa diffidenza si manifesta ogniqualvolta un pezzo di uomo finisce in una macchina: prima o poi, ci capita di pensare, nella macchina ci finiremo noi.
E allora? Si può proibire di avere in casa l’intera Library of Congress? E quale argomento addurre: forse la nostalgia verso l’odore della carta, e la difesa (piuttosto regressiva) del piacere di sottolineare, o di annotare a margine? Ci basterà pensare che l’invenzione dell’automobile non ha eliminato la bicicletta? Anche così, il libro rimarrebbe comunque il mezzo meno potente di accumulazione e conservazione di dati.
Ma la conoscenza è solo accumulazione ed elaborazione di dati? Se tale fosse, chi o cosa insegnerà il modo di trattare ed elaborare quei dati? Lo si farà forse in altri libri o in altri dati reperibili via Internet? E le regole per il trattamento di questi ultimi? Stiano tranquilli, allora, coloro che temono la fine della cultura per mano della tecnica: il paradosso della regola ci viene in salvo. Perché quand’anche in Google ci finisse per davvero tutta la conoscenza del mondo, la conoscenza di come trattare questa conoscenza non vi potrebbe mai finir dentro: una regola per l’applicazione delle regole non v’è, pena il regresso all’infinito. Per questo genere di conoscenza non c’è surroga tecnica che tenga: la sua acquisizione non può farsi a mezzo di regole implementate in questa o quella memoria elettronica. Persino Platone potrebbe dichiararsi soddisfatto. E noi potremo rimetterci a pensare con la nostra testa, compulsando febbrilmente tutti i byte disponibili, per convincerci che, forse, la contrapposizione tra umanità e cultura da una parte, macchine e tecnica dall’altra è solo una sciocchezza, e la vera questione non è dunque quale fine fa l’uomo, nell’era del megabyte e del microchip, ma quale uomo ha qui inizio.