American boy

Benché l’uscita ufficiale dell’album risalga alla fine dell’estate 2004 e fiumi di inchiostro siano stati già versati sull’argomento, ora che i risultati delle elezioni presidenziali americane sono acquisiti si può forse meglio giudicare quell’American Idiot che i Green Day hanno sventolato in faccia ai loro compatrioti.
Apparso come parte dello schieramento musicale pro-voto e pro-Kerry capitanato da Bruce Springsteen (uno che dà ancora punti a tutti, Green Day in testa, per energia, rabbia e tenuta on stage), American Idiot è il tentativo molto, molto ambizioso di risollevare una carriera impantanatasi nell’auto-stereotipo dopo un folgorante successo iniziale: amici d’infanzia, Billy Joe Armstrong (voce e chitarra) e Mike “Dirnt” Pritchard (basso) formano la loro prima band, Sweet Children, nel 1987; con l’aggiunta del batterista Al Sobrante diventano Green Day e incidono l’ep 1000 hour. Apprezzati dalla scena hardcore indipendente, arrivano in fretta al primo album, 1,039/Smoothed Out Slappy Hour. Poco dopo, Sobrante viene rimpiazzato da Frank Edwin Right III, meglio noto come “Tre Cool”, e la formazione si stabilizza; Kerplunk del ’92 allarga il consenso prima dell’esplosione di Dookie nel ‘94: abbandonato l’hardcore, la band si concentra sul punk, genere del quale scatena un vero e proprio revival. L’album travolge le classifiche come un tornado ma siamo lontani tanto dall’iconoclastia feroce e dall’abrasività sonora dei Germs, dall’ironica acidità dei Bad Religion o dei Social Distortion, quanto dall’aggressività dei Warrior Soul, per non parlare della sublime demenzialità degli immensi Ramones.
A Kerplunk succedono tre album (“Insomniac”, ’95; “Nimrod”, ’97; “Warning”, ’00) dall’ispirazione via via sempre più stanca; i dati di vendita di Dookie sono un mostro appiccicoso dal quale la band non sa – o non vuole – liberarsi; e la scelta di smussare il sound non è di grande aiuto. Dopo cinque anni di riflessione, Armstrong sceglie di alzare la scommessa: American Idiot è una punk-opera che guarda a modelli talmente alti da procurare le vertigini a chiunque. I Kinks di Arthur e, soprattutto, gli Who di A Quick One While He’s Away, copiata come struttura in Jesus Of Suburbia e Homecoming; e ancora i Clash che affiorano in Are We Waiting o gli Husker Du di Zen Arcade e Warehouse: song and stories, ovvero la spina dorsale del punk americano anni ’80.
Coraggiosa e cosciente, la scommessa riesce a metà: il confronto mette a nudo le velleità della band nonostante l’impegno, tuttavia American Idiot non merita la bocciatura: ci restituisce i Green Day più adrenalinici degli esordi coniugati con un’improvvisa voglia di “dire qualcosa” che non guasta; se questo qualcosa, peraltro, è troppo spontaneistico e grezzo per fornire un convincente invito a un ricambio generazionale (non solo alla Casa Bianca), è comunque importante se, oltre ai piedi, la musica fa muovere un po’ anche le meningi. E se son rose: hey ho – let’s go.