The real sick man of Europe

Il primo gran malato d’Europa terminò i suoi giorni con la Prima guerra mondiale e le sue spoglie furono spartite tra le grandi potenze del continente. La definizione coniata dallo zar Nicola I è ormai di uso comune, eppure fa una certa impressione vederla attribuita all’Italia sulla copertina dell’Economist, il maggiore e il più globale dei settimanali politico-economici, nel momento in cui potenze del calibro del Banco de Bilbao o dell’olandese Abn Amro ingaggiano una lotta senza precedenti (senza precedenti in Italia, sia ben chiaro) per il controllo di pezzi importanti del nostro sistema economico; nel momento in cui la società che controlla il principale quotidiano del paese ondeggia vistosamente al diffondersi delle voci su una possibile scalata da parte di quegli stessi newcomers impegnati contro gli stranieri nella battaglia per il controllo delle banche; nel momento di massima debolezza delle grandi famiglie che fino a oggi hanno retto il capitalismo italiano, a cominciare dalla Fiat, riunite in un patto di sindacato della Rcs che di quel grande ammalato assomiglia sempre di più al capezzale; nel momento di massima debolezza dell’intero sistema politico italiano, con un governo in crisi permanente e con un’opposizione, dopo la scelta di Francesco Rutelli di abbandonare con il suo partito la lista Uniti nell’Ulivo promossa da Romano Prodi, sempre più aspramente divisa.
L’analisi del settimanale britannico è chiara: il nostro capitalismo è malato, il governo non ha fin qui nemmeno tentato una terapia degna di questo nome, l’opposizione non sembra in grado di fare molto meglio in futuro. Sul primo punto, l’elenco va dalla crisi della Fiat alle crescenti difficoltà del nostro tessuto di piccole e medie imprese stretto tra la concorrenza cinese e i vincoli imposti dall’euro; dalle crisi Cirio e Parmalat alle opa su Bnl e Antonveneta, con un giudizio pesante – ma non nuovo in Europa – sul comportamento delle autorità di vigilanza in entrambi i casi. Per quanto riguarda il governo, al problema dei conti pubblici ha finora risposto con condoni e una tantum; agli scandali finanziari che hanno azzerato la fiducia dei risparmiatori, con un disegno di legge di cui da tempo si sono perse le tracce. Sul costo che una simile analisi avrà sulla già scarsa credibilità dell’Italia nei mercati e nel delicatissimo confronto con gli altri paesi dell’Ue a proposito di vincoli, interpretazioni e infrazioni ai parametri di Maastricht, ognuno può valutare da sé.
C’è solo una domanda lasciata senza risposta dallo spietato editoriale dell’Economist: perché? Qual è la ragione strutturale che ha portato a una situazione che lo stesso settimanale lascia intendere sostanzialmente irrisolvibile, concludendo l’analisi con le parole più pesanti: “Il nuovo titolo italiano potrebbe rimanere incontestato per un bel po’ di tempo”? La ragione, crediamo, sta nella debolezza della politica. Una condizione perfettamente rappresentata dallo stato della coalizione data da tutti per vincente. Nello stesso giorno in cui l’Economist esce con la sua nuova copertina dedicata all’Italia, Francesco Rutelli raccoglie il voto dell’assemblea federale della Margherita con cui abbandona la lista unitaria. Tentando così di affossare l’unico progetto in campo che abbia come obiettivo il superamento della vera anomalia italiana. Quella di un sistema bipolare privo di due partiti egemoni e largamente maggioritari nei rispettivi campi, senza i quali il principio dell’alternanza si riduce a una finzione giuridica. Difficilmente un sistema politico paralizzato dal potere di interdizione di mille partiti, gruppi di pressione e blocchi di interessi consolidati, potrà mai generare quella politica economica dinamica e quelle riforme che l’Economist non riesce a vedere nemmeno nel centrosinistra guidato da Prodi. Se la decisione della Margherita venisse confermata (ma qui trovate un appello che invita a non disperare e a dare battaglia) ci potremmo trovare di fronte a un triste parallelismo. Partiti esangui e delegittimati dalle continue lotte intestine, asserragliati in una sorta di ridicolo patto di sindacato della rappresentanza politica, privi di alcuna capacità di rappresentanza reale, chiusi in continui vertici di salotto da cui uscirebbero formule ogni giorno più vuote e incomprensibili. Fino all’arrivo di un nuovo Berlusconi o di qualche altro spregiudicato scalatore. Un patto di sindacato tra partiti falliti, paralizzati dalla reciproca interdizione e dalla paura, in attesa dell’arrivo di quella nuova Italia, buona o cattiva, limpida o corrotta, rivoluzionaria o restauratrice, che in ogni caso avrebbero definitivamente rinunciato a formare.