Via della seta e rivoluzioni di velluto

La via che unisce l’Europa alla Cina si incunea attraverso ex superpotenze, future superportenze e paesi in fieri, bellicosi, difficili da includere in progetti d’integrazione internazionale. La Russia chiude tutto il versante nord. Ex dominatrice, si è ritirata con la morte del gigante sovietico. Oggi fatica e arranca per ritrovare lo spazio perduto. Al sud si allinea una teoria di paesi, tutti importanti, tutti protagonisti della storia millenaria dell’uomo, tutti coinvolti nelle più importanti guerre degli ultimi cento anni: India, Pakistan, Afghanistan, Iran, Iraq e Turchia. Anche escludendo dall’analisi le materie prime, abbondantissime nell’area, il corridoio Caucaso-Caspio-exAsiaSovietica rappresenta un cordone ombelicale tra Cina ed Europa di importanza incalcolabile.
La strategia della Cina è quella di diventare la più grande potenza del mondo, ma senza che nessuno se ne accorga, così da evitare reazioni contrastanti il suo progetto. Ma la Cina non è baciata dalla geografia come lo sono gli Stati Uniti. La Cina ha un accesso al Pacifico complesso, potenzialmente minacciabile da tre paesi, tutti stretti alleati americani: il Giappone, le Filippine e Taiwan. Il grande paese asiatico è poi schiacciato dalla Russia al nord e tallonato dall’India al sud. La Cina è circondata e chiusa da vicini che rappresentano in ugual modo un’opportunità e una minaccia. Ma ecco quel piccolo corridoio che permette alla Cina di avere un contatto geografico diretto con la vecchia Europa. I cinesi sanno dove vogliono andare, e hanno capito che l’Europa è ancora una fonte importante di tecnologia e il più grande bacino di consumatori, insieme agli Usa. Forse l’Europa è più confusa rispetto al suo futuro, ma sa che non può delegare ai soli Stati Uniti il ruolo di rappresentante unico dell’occidente, quindi tenta una politica cinese indipendente. Un episodio a questo riguardo è il tentativo della Ue di cancellare l’embargo sulla vendita di armi alla Cina, a cui gli Stati Uniti stanno fortemente opponendosi.
Quando si costruisce una galleria, si comincia a scavare dai due versanti della montagna, con l’obiettivo di incontrarsi la centro. Ma in questo caso è diverso. Questo corridoio lo auspicano sia l’Europa, sia la Cina, sia gli Stati Uniti, ma tutti lo vorrebbero controllare da un capo all’altro. L’Europa e la Cina non vogliono incontrarsi nel mezzo. L’Europa è sicuramente in vantaggio, ma la Cina vuole reuperare il terreno perduto.
Il Caucaso è già sotto l’influenza europea, almeno la sua parte strategica, il corridoio Georgia-Azerbaijan. Pochi giorni fa, il 25 maggio scorso, è stato inaugurato l’oleodotto Baku-Tiblisi-Cayhan (quest’ultima è una località della Turchia sul Mediterraneo). La costruzione, cominciata dieci anni fa, permetterà di aprire direttamente all’Europa una delle più grandi riserve di petrolio mondiali, una fonte energetica non-Russa e non-mediorientale. Fino a oggi l’unica via di trasporto del petrolio del Caspio erano i vecchi oleodotti che dirigevano al nord, in Russia. Quest’ultima sta lottando per non perdere completamente il Caucaso. Mantiene una presenza militare in Armenia, paese che ha scelto di sostenere nel suo confonto militare con l’Azerbaijan. Inoltre ha sempre tentato di accreditare l’instabilità della Georgia, appoggiando gli indipendisti della Sud Ossetia e dell’Abkhazia. Le due province confinano con la Russia e sono occupate da truppe russe di “peacekeeping”. Tra gli obiettivi fondamentali del programma dell’attuale presidente georgiano è la liberazione di queste province, ci è già riuscito con quella che era la terza occupata, la provincia di Batumi. Inoltre la sua aspirazione è di aderire alla Nato e poi all’Unione europea.
Che cosa sta succedendo dall’altro lato della “galleria”?
Per un decennio, dallo sfaldarsi dell’Unione sovietica all’11 settembre, i cinque paesi “stan”, hanno dormito quasi dimenticati. I precedenti governanti, proconsoli del potere di Mosca, sono diventati indipendenti, dittatori in proprio. Tra i cinque stati si è subito distinto il Kazakhstan. E’ il più grande del gruppo per estensione e il secondo per popolazione dopo l’Uzbeskistan, 15,4 milioni contro 26,9. Il suo destino geopolitico è abbastanza chiaro. La base spaziale di Baikonur, la città delle stelle, rappresenta una risorsa al cui controllo difficilmente i russi saranno disposti a rinunciare. Il Kazakhstan non può essere perso come è avvenuto per l’Ucraina. Controllare il Kazakhstan significa circondare Mosca alle spalle. Minacciare gli Urali da est.
Il Turkmenistan è sostanzialmente un deserto, abitato da 5 milioni di abitanti, il meno popoloso delle cinque ex repubbliche sovietiche. Ma è la quinta più grande riserva mondiale di petrolio. Il suo presidente Niyazov era presente a Baku all’inaugurazione dell’oleodotto Baku-Tiblisi-Cayhan. Il Turkmenistan si bagna sul Caspio proprio di fronte all’Azerbaijan, le aspettative dell’occidente e dei turkmeni sono di poter esportare il loro petrolio congiungendosi a quell’oleodotto. Fino a oggi il paese è rimasto fortemente chiuso e isolato, sotto la cappa di un potere personale che si è esteso fino alla nomina nel 1999 di Niyazov a Presidente a vita.
A oggi non esiste alcuna forza d’opposizione in grado di preoccupare il potere assoluto di Niyazov. A indicare il grado di libertà nel paese, basti segnalare che i programmi della tv russa vengono censurati prima di essere trasmessi sul territorio turkmeno. Cina e Russia preferiscono lo status quo. La Cina non è ancora attrezzata per intervenire direttamente, per lei la Russia rappresenta un curatore dell’eredità, la conserverà finché la nuova potenza non sarà pronta all’assunzione di responsabilità.
Il Tajikistan confina direttamente con la Cina e con l’Afghanistan. A differenza di Turkmenistan e Kazakhstan, è immediatamente sprofondato nella guerra civile. Un quarto dei 6,3 milioni di abitanti è uzbeko. La lingua tajika è una variante del persiano iraniano e del dari afghano. Nel 1997 sono terminati cinque anni di guerra civile tra il governo, appoggiato dai russi, e l’opposizione armata islamica. Ancora una volta gli interessi cinesi e quelli russi combaciano. La Cina è contraria a ogni sviluppo in senso islamico della regione, perché minaccerebbe di espandersi all’interno della Cina stessa. I cinesi incoraggiano quindi i russi, in un’azione di doppio contenimento, dell’islam e della penetrazione occidentale. In Tajikistan come in Uzbekistan, l’occidente è in difficoltà. Stati Uniti ed Europa vorrebbero estendendervi la propria influenza a scapito di quella russa, e in funzione di contenimento di quella cinese. Ma la destabilizzazione del potere russo deve avvenire solo nella certezza del passaggio di consegne a occidente. In questi due paesi è invece forte il rischio di una deriva del potere, che potrebbe alla fine essere afferrato dalle forze estremiste islamiche. Sembra che l’Europa sia attenta alla lezione della Quarta Crociata, quando i veneziani dirottatorono la spedizione contro Constantinopoli assediandola e saccheggiandola nel 1203 e nel 1204, indebolendo e colpendo alle spalle la secolare forza che sbarrava la strada del mediterraneo alle popolazioni turche. Il Tajikistan rimane in bilico nella sua instabilità, ancora sotto il controllo russo.
Diverso il fato del Kyrgystan, dove si è svolta un’altra rivoluzione arancione, apertamente sostenuta dall’occidente. Questo è forse il paese dove la convivenza contemporanea tra le influenze occidentali e quella russa è più evidente. Dopo l’attacco dell’11 settembre, le aurorità kyrgyse hanno autorizzato l’apertura di una base militare americana che usa l’aereoporto Manas di Bishkek. Nel settembre del 2003, le stesse autorità hanno raggiunto un accordo con la Russia, permettendo il dispiegamento di una Rapid Reaction Force russa nella base aerea di Kant, a 30 km di distanza da quella americana. L’opposizione che ha preso il potere nel marzo di quest’anno è vicina all’occidente e non ha matrice religiosa. Sopratutto a partire dal 2001, si è fatta importante la presenza di organizzazioni americane che hanno lavorato nel paese per promuovere la democrazia, ovvero costruire il clima per un regime-change. Il presidente defenestrato Akayev, non ha mancato di accusare gli americani di aver organizzato questa velvet revolution che lo ha estromesso dal potere.
A maggio è sembrato che stesse per scoppiare una simile rivoluzione anche in Uzbekistan. Ma il presidente uzbeko, Karimov, non si è lasciato indimidire. Il 13 maggio ritornava nella capitale, Tashkent, dopo che le sue truppe avevano schiacciato una rivolta nella città di Andijan, in quel triangolo del paese che si allunga nella valle della Fergana, completamente circondato dal Kyrgystan. Questa rivolta aveva caratteristiche differenti. Innanzitutto scoppiava in una città periferica senza riuscire a dilagare nel resto del paese. Non era una rivolta di piazza, né di capi dell’opposizione. Era l’assalto a una prigione dove erano detenuti 23 leader di organizzazioni islamiche, che venivano liberati insieme ad altri 2.000 detenuti. Seguivano delle manifestazioni di piazza, ma la polizia sparava alzo zero. Fuoco indiscriminato e almeno 200 morti secondo le fonti più ottimistiche.
I 23 liberati erano accusati di appartenere al gruppo Akramia, così chiamato in onore a Akram Tahir Yuldashev, leader dell’Islamic Movement of Uzbekistan (Imu), affiliato ad al Qaeda. Nel 1999, Akram è stato condannato in contumacia a 17 anni di reclusione. Akramia, sullo stile di Hamas, non è solo un’organizzazione politica, ma anche sociale. Ha sviluppato una serie di piccole attività economiche che danno lavoro nella impoverita città di Andijan e nella circostante valle della Fergana, terra di coltura delle organizzazioni islamiche armate. Karimov è sopravissuto al potere dal 1989 con i trucchi elettorali e con la forza, senza esclusione della tortura. I suoi unici consistenti oppositori sono due gruppi islamici, Hizb-a-Tahrir e il già citato Imu. L’Uzbekistan ospita basi americane di appoggio alle operazioni in Afghanistan e la Casa bianca si è espressa recentemente chiedendo a entrambi, governo e opposizione, di favorire la calma.
L’occidente non sembra avere apprezzato che dietro questa sollevazione ci fosse l’organizzazione dell’Islamic Movement for Uzbekistan. Già nel marzo-aprile del 2004, l’Imu aveva organizzato un’ondata di attentati terroristici suicidi, i primi nella repubblica asiatica. Tra gli altri obiettivi le ambasciate americane e israeliane. Le basi di addestramento dell’Imu si trovano vicino al confine con l’Afghanistan e la Cina. L’obiettivo del suo fondatore, Yuldashev, è quello di far nascere un Califfato nella valle di Fergana, che si estende tra Uzbekistan, Kyrgyzstan e Tajikistan. L’onda di violenza in Uzbekistan è cominciata con il suo ritorno in patria. Yuldashev ha trascorso la maggior parte degli anni ’90 in Afghanistan insieme a Osama bin Laden, poi in seguito alla caduta dei talebani si è spostato in Pakistan, nell’area tribale del Sud Waziristan. All’inizio del 2004, in seguito alle iniziative del governo pakistano, a caccia di al Qaeda nelle aree tribali, e degli americani sul corrispondente versante afghano, Yuldashev era costretto a riparare a Tashkent.
L’Imu è stato fondato nel 1989, lo stesso anno della presa del potere di Karimov, e da allora ne è diventato il nemico più implacabile. Il numero dei suoi aderenti è stimato in 7.000. Alcuni di loro hanno combattuto in Afghanistan, dove hanno ricevuto formazione militare e indottrinamento religioso. Da quando il regime talebano è caduto, l’Imu ha dichiarato guerra agli americani, alle loro basi aeree e alle loro forze speciali presenti sul territorio uzbeko. Secondo fonti israeliane, agenti dell’Imu frequentano l’ambasciata iraniana nel vicino Tajikistan, dove riceverebbero aiuti finanziari e supporto logistico.
In questo contesto non ha stupito la reazione controllata dell’Europa. Non ha parteggiato in alcun modo per questa insurrezione, ma al contrario ha reagito con toni smorzati alla brutale repressione attuata dal governo. Il governo cinese, che a differenza dell’Europa non ha un pedigree democratico da difendere, è corsa apertamente e senza esitazioni in difesa del Presidente Karimov. Il ministro degli Esteri cinese Kong Quan ha dichiarato alla stampa internazionale: “Appoggiamo fermamente l’intervento contro le tre forze del separatismo, del terrorismo e dell’estremismo, attuato dal governo dell’Uzbekistan”.
L’Uzbekistan, un tratto di quella via dove dovrebbero passare tecnologie, uomini, beni e risorse naturali. Una via di comunicazione millenaria tra Cina ed Europa. Entrambi la vorrebbero controllare, ma in questa sfida nessuno dei due è disposto a farla cadere in mano al fondamentalismo islamico. Il grido di allarme dell’Economist, che invita a intervenire per la democrazia in Uzbekistan, sembra una voce fuori da questo coro che chiede prudenza. Ma forse quella dell’Economist è semplicemente un’analisi di lungo periodo, ci ricorda che non si può pretendere di avere l’amicizia di quei paesi se non ci si preoccuperà anche del loro benessere e della loro libertà. E’ un richiamo dell’occidente ai suoi doveri, innanzi tutto a favore di quei paesi che hanno già scelto l’occidente. Non facciamo fallire le rivoluzioni arancioni e il loro successo sarà la nostra gioiosa arma da guerra nella conquista della via della seta.