Lui c’entra

Francesco Rutelli ha gettato il dado sul tavolo del referendum. Presa la decisione di dichiarare pubblicamente la sua scelta astensionista, avrebbe potuto comunque attenuarne il valore politico, dare alla sua posizione il carattere di una scelta personale, porre la questione nei termini di un problema di coscienza che in fondo ha già diviso tanti partiti e leader politici. Nessuno avrebbe potuto obiettargli alcunché. Rutelli ha deciso invece di dare a quella scelta un preciso significato politico, accusando gli alleati di essere loro fuori linea, sfidandoli così apertamente – anche su questo terreno – nella contesa per l’egemonia nella coalizione.
Si tratta evidentemente di un rischio calcolato. La scommessa si basa infatti sulla possibilità di tenere insieme il Rutelli del seminario di Frascati – quello che parla agli industriali e allo stesso Montezemolo in maniche di camicia – con i notabili in doppiopetto che da Roma in giù costituiscono l’autentico insediamento del suo partito. Il Rutelli che parla di competitività e delle grandi liberalizzazioni di cui ha bisogno il paese, quello che aspira a collocare la Margherita nel solco del New Labour di Tony Blair per strappare a ulivisti e diessini la bandiera riformista, con i De Mita e i Mastella campani. Dopo avere virtualmente espulso Prodi e di fatto ripudiato il simbolo dell’Ulivo, prosciugato così il già scarso bacino di consensi della Margherita nel centronord – frutto essenzialmente di voto d’opinione ulivista – il partito di Rutelli e Marini si ferma a Eboli, ma partendo dalla Sicilia delle venti liste civiche catanesi e riuscendo a malapena a difendere il Lazio. Quello che resta è una solida forza centromeridionale, una grande Udeur che con l’Udeur di Mastella non tarderebbe a fondersi e a confondersi in una sorta di Lega del sud. Un partito che avrebbe la sua spina dorsale nelle vecchie strutture di potere post-democristiane, negli antichi bacini di consenso personali di un’antica classe dirigente locale e dei suoi tardi epigoni di centrosinistra e di centrodestra. Ma come si potrebbe mai conciliare tutto questo con il giovane leader riformista che in maniche di camicia parlava a Frascati di innovazione e lotta alla burocrazia statale, per rompere con la tradizione assistenziale e clientelare che per cinquant’anni ha poggiato le sue basi in quello stesso personale politico, in quelle stesse forme di acquisizione e organizzazione del consenso che domani rappresenterebbero la vera constituency della Margherita rutelliana? Questo è l’errore, a nostro parere, nel calcolo del presidente della Margherita. Così come non si possono arruolare i talebani nella battaglia per l’emancipazione della donna o chiedere a Bertinotti di battersi per la rivoluzione liberale, così non si può chiedere a De Mita, Mastella e ai frettolosi transfughi del centrodestra di combattere contro i finanziamenti a pioggia e gli enti inutili che fino a oggi hanno garantito le loro fortune elettorali.
Il riformismo rutelliano può dare così il meglio di sé nei seminari a porte chiuse o nei salotti televisivi (e anche qui solo a patto che si mantenga sufficientemente sul vago e a debita distanza dal voto), ma è destinato a fermarsi molto prima di Eboli. Al di là dei proclami di spirito battagliero e delle dimostrazioni di fierezza e forza di volontà, è destinato a fermarsi nel preciso istante in cui lo sguardo del coraggioso capitano incontri gli occhi dei suoi stessi ufficiali e luogotenenti. Il riformismo non è infatti la destra del centrosinistra, ma il centro della coalizione. E ne è il centro perché ne è il cuore, l’unico organo vitale capace di spingere la coalizione – se saprà darsene la forza e gli strumenti – a superare quell’aporia tra necessità di riforme ed esigenze del consenso dinanzi alla quale il riformismo rutelliano si è arreso. Non per mancanza di forza, ma per mancanza di volontà.