Quattro anni dopo l’11 settembre

L’ attentato di Londra arriva a quattro anni dall’11 settembre e dalla guerra in Afghanistan, a due anni dallo scoppio del conflitto in Iraq, a un anno dalla strage di Madrid. E Tony Blair non ha esitato a dichiarare che un simile attacco era inevitabile, prevedibile e previsto. Fino a oggi, alle critiche di chi accusava la politica angloamericana di alimentare il terrorismo si è sempre replicato: “Ma l’11 settembre è avvenuto prima della guerra in Iraq!”. E’ vero. Eppure considerazioni analoghe a quelle del premier britannico sull’inevitabilità dell’attentato in questi giorni sono state ripetute continuamente, senza che alcuno replicasse che l’11 settembre è avvenuto ormai quattro anni fa. E’ lecito domandare quanto tempo bisognerà aspettare perché si possa fare almeno un primo bilancio della politica seguita sino a oggi, senza considerare come un fatto scontato che le principali capitali europee vengano sconvolte dalle stragi?
I sostenitori della guerra in Iraq hanno finora oscillato tra due giustificazioni: da un lato le esigenze della lotta al terrorismo, dall’altro l’occasione di rovesciare una crudele dittatura; difesa preventiva o internazionalismo democratico, a seconda del momento e dell’interlocutore. Tuttavia, quale che sia la giustificazione scelta, non si può nascondere il fatto che questa linea comporta un prezzo da pagare su entrambi i fronti. Sul fronte della difesa preventiva, basta guardare alle ultime elezioni in Iran, che hanno rafforzato gli integralisti e la loro volontà di proseguire sulla strada del nucleare, così come al quadro di sempre maggiore destabilizzazione dell’intero Medio Oriente, alle stragi di al Qaeda in ogni angolo del pianeta, all’indebolimento politico e militare degli Stati Uniti impantanati in Iraq e dell’intero fronte occidentale che aveva condotto con successo la guerra in Afghanistan; sul fronte dell’internazionalismo democratico e della difesa dei diritti umani, non si può nascondere il fatto che ora la Russia di Putin avrà se possibile ancora maggiore libertà d’azione nella sua molto personale visione della guerra al terrorismo e non è detto che anche qualora l’Iraq divenisse davvero una perfetta democrazia liberale, il conto non lo paghino i ceceni e tanti altri sudditi di dittature più o meno mascherate, ma nostre alleate in questa strana guerra. Se a tutto questo si aggiunge poi la sorte delle popolazioni mediorientali, a cominciare dagli iracheni decimati dai kamikaze e dagli studenti iraniani che sognavano le riforme, vittime dell’inasprimento del conflitto ideologico, etnico e religioso, anche nel caso in cui l’Iraq divenisse davvero il paradiso terrestre non sembra probabile che alla fine dei conti il bilancio sia positivo.
E’ lecito cominciare a discuterne adesso, a quattro anni dall’11 settembre e dal dispiegarsi della nuova politica estera dell’Amministrazione Bush, oppure bisogna aspettare dieci anni prima di potere aprir bocca e porre alcune banali domande nel merito dell’efficacia e dei risultati di una tale politica? E’ possibile cominciare a discutere ora, seriamente e senza pregiudizi, degli effetti di una tale strategia senza per questo essere accusati di alto tradimento? Non è forse venuto il momento di compiere una serena valutazione dei costi e dei benefici?
Le prime indagini sull’attentato di Londra sembrano confermare quello che era già emerso dalle inchieste sull’11 marzo di Madrid. Negli ultimi anni – gli anni della guerra al terrorismo, attenzione, non prima – al Qaeda si è mostrata capace di reclutare centinaia di giovani dagli ambienti della piccola malavita come tra gli studenti delle migliori università dei paesi occidentali e non solo. Non si tratta di commando addestrati in qualche stato canaglia, non si tratta di agenti segreti formati e armati dalle potenze dell’Asse del male. L’analisi che sosteneva l’idea della guerra preventiva non ha trovato infatti alcuna conferma. E non solo per l’assenza di armi di distruzione di massa in Iraq o per la mancanza di prove convincenti sui legami tra Iraq e al Qaeda, ma per la stessa genesi degli attacchi portati a termine dagli islamisti e per le informazioni sin qui raccolte dagli stessi servizi segreti occidentali. Non è questa già di per sé una buona ragione per correggere l’analisi e rivedere le decisioni assunte di conseguenza?
Sfortunatamente, a leggere le opinioni prevalenti nel dibattito pubblico interno e internazionale, sembrerebbe di no. Parrebbe invece convinzione diffusa che a questo stato dei fatti debba fare seguito un ulteriore inasprimento della strategia sin qui adottata: minori garanzie costituzionali, ulteriore torsione su libertà civili e immigrazione, maggiore determinazione sulla strada di Guantanamo e del Patrioct Act. Ma se l’analisi è quella che abbiamo appena enunciato, se i carnefici di Madrid vivevano in Spagna da anni, se l’esplosivo utilizzato ad Atocha lo avevano ottenuto dal contrabbando locale e proveniva direttamente dalle miniere delle Asturie, anche qualora si decidesse di radere al suolo l’intero Medio Oriente e cancellare dalla faccia della Terra ogni potenziale stato canaglia, cosa impedirebbe l’arruolamento e il successo di nuovi fanatici e il diffondersi del loro esempio nei paesi bersaglio degli attentati? Il commando di Madrid era ampiamente infiltrato e tenuto sotto osservazione dalle forze dell’ordine, non è improbabile che lo stesso sia accaduto per gli attentatori di Londra ed è certo che in tal caso i servizi britannici dovranno sostenere accuse non meno pesanti di quelle che allora investirono i loro colleghi iberici. Ci illudiamo davvero che possa essere messa a punto una legislazione speciale talmente implacabile da permettere di prevenire ogni singolo attacco proveniente dagli ambienti del disagio e dell’immigrazione più o meno clandestina? E anche qualora questo fosse possibile, siamo sicuri che una simile torsione autoritaria non avrebbe nel medio periodo l’effetto di eccitare e diffondere l’odio antioccidentale negli ambienti più sensibili alla predicazione fondamentalista?
Di fronte all’offensiva del terrorismo che continua a minacciare la Gran Bretagna e l’Europa, che fa nuovi morti in Iraq, non si tratta solo di perorare la collaborazione tra polizia e intelligence occidentali. Certamente è possibile e ragionevole rivedere molti aspetti del diritto interno e internazionale per rendere più efficace la lotta contro il nemico. Non si possono escludere a priori nemmeno le misure più estreme. Simili iniziative non possono però essere adottate unilateralmente. Occorrerebbe una lunga discussione e un accordo generale che comprendesse perlomeno tutti i paesi a suo tempo impegnati in Afghanistan. Ma sul perché questa via al momento non sembri facilmente percorribile preferiamo non intrattenerci in un momento tanto drammatico. Speriamo solo che torni presto a essere percorsa.