L’uragano e l’11 settembre

Il passaggio dell’uragano Katrina è equivalente a un attacco militare su vasta scala al territorio americano. Dalla Louisiana sud-orientale alla costa del Mississippi le rovine di città e villaggi testimoniano una violenza peggiore di un bombardamento. A New Orleans e in altri centri si è prodotto uno scenario di tipo iracheno, con saccheggi, scontri tra bande, violenze contro cittadini inermi, insicurezza diffusa per gli operatori umanitari spesso privi di copertura da parte di polizia e forze armate. In molte zone i soccorsi sono giunti in grave ritardo e ciò ha destato sconcerto e umiliazione nell’opinione pubblica. Quando un convoglio dell’esercito messicano ha passato il Rio Grande a Laredo – cosa che non accadeva dalla guerra del 1846-48 – per portare depuratori e cucine da campo agli sfollati, le dichiarazioni del presidente Bush sulla capacità dell’America di rialzarsi subito da sola sono state commentate con ironia.
Pur ammettendo l’eccezionalità dell’evento, si registrano delle carenze nel farvi fronte. Sul lungo periodo, nonostante i ripetuti allarmi lanciati dagli esperti negli ultimi anni, le vecchie barriere a protezione di New Orleans non sono state potenziate. Nel 2003 gli stanziamenti iniziali per un piano volto ad alzare gli argini e costruire stazioni di pompaggio dell’acqua (Southeast Louisiana Urban Flood Control Project), furono ridotti a una cifra insignificante. Ulteriori tagli federali, legati ai programmi fiscali di Bush e alle guerre del dopo 11 settembre, hanno in pratica bloccato ogni sforzo, mentre in Iraq al Genio militare venivano destinate somme crescenti per centinaia di opere idriche.
Omissioni e ritardi vi sono stati anche all’immediata vigilia della catastrofe. Non bastava certo dare ordini di evacuazione in una città con almeno un terzo della popolazione sotto la linea della povertà e inconsapevole di ciò che stava maturando. Perché non sono stati attuati dei piani di emergenza per lo sfollamento? Perché non si è cercato di rinforzare gli argini prima e dopo il passaggio della tempesta, mobilitando tutte le forze tecniche disponibili? Abbiamo visto funzionari federali ammettere di aver appreso costantemente in ritardo l’evolversi degli eventi. Un paradosso per la società dell’informazione globale, che si illude di poter controllare tutto in presa diretta.
Una volta avvenuta l’inondazione, la macchina dei soccorsi è parsa lenta e inefficiente, ben lontana dal modello di sicurezza nazionale propagandato dopo l’11 settembre. Problemi di cooperazione tra i diversi corpi civili, militari e di polizia, nonché polemiche tra autorità federali e locali hanno dato la sensazione di una Caporetto organizzativa, oscurando anche gli aspetti positivi (ad esempio i salvataggi aeronavali dal Golfo del Messico). Si è lamentata la tarda dislocazione sul campo di quella Guardia Nazionale sempre più sfruttata per il ricambio delle truppe in Iraq, e in tal modo secondo molti allontanata dai suoi compiti primari e naturali. Specialisti del Genio accorsi in Louisiana sono stati accusati di follia quando hanno proposto di aprire ulteriori brecce negli argini per favorire il deflusso delle acque. Con simili esperti – ha osservato qualcuno – non c’è da meravigliarsi che in Iraq servizi essenziali siano mancati così a lungo nelle città dopo la caduta di Saddam. Ironie a parte, a finire sotto processo è stata in primo luogo la Federal Emergency Management Agency (Fema), in cui molti dei dirigenti migliori sono andati in pensione o passati ad altri incarichi, mentre ai vertici è giunta una infornata di manager più per meriti politici che per esperienza nel campo della protezione civile. L’agenzia un tempo incaricata di rendere sostenibile per la popolazione la guerra nucleare e accusata di detenere poteri quasi dittatoriali in caso di emergenza nazionale, viene ora descritta come un carrozzone che gira a vuoto. Alcuni hanno ricondotto le carenze organizzative alla scelta del 2003 di togliere alla Fema la sua autonomia e incorporarla nel Dipartimento dell’Homeland Security; altri invece parlano di una vulnerabilità che è sempre esistita e che solo la fortuna ha impedito emergesse prima.
Gli effetti di Katrina minacciano di pesare a lungo sulle scelte militari dell’amministrazione Bush. Dinanzi ai ritardi dei soldati nel raggiungere le zone colpite molti ora chiedono al Congresso di interrompere il programma di chiusura delle basi militari e di tagli al personale dell’esercito. I progetti di Rumsfeld per la modernizzazione delle forze armate – meno uomini, più tecnologia – vengono ora criticati e si osserva che la presenza diffusa di soldati nel territorio nazionale è un elemento di stabilità e fondamentale importanza, sia che si debba fronteggiare un nemico umano oppure l’assalto della natura. Anche a causa di questi rilievi il Pentagono ha ridotto da 20 mila a duemila uomini l’entità dei rinforzi da inviare in Iraq per il referendum di ottobre, un nuovo delicato passaggio che potrebbe generare un ulteriore inasprimento della guerriglia.
Katrina ha interrotto l’estrazione di petrolio nel Golfo del Messico, privando gli Stati Uniti di circa il 28 per cento della produzione quotidiana. Negli ultimi anni il governo americano, dinanzi all’affievolirsi di giacimenti tradizionali come quelli texani, ha puntato molto sull’area del Golfo favorendo la costruzione di nuove piattaforme da miliardi di dollari in acque profonde. Se questi impianti strategici, come si teme, non saranno rimessi in funzione nei prossimi mesi, la dipendenza americana dal petrolio straniero aumenterà drammaticamente, spingendo forse ancora di più la Casa Bianca a impegnarsi militarmente in aree quali il Medio Oriente, l’Asia centrale, l’Angola, la Nigeria, la Colombia, il Venezuela. Alcuni prevedono una accelerazione dei piani per nuove basi in Azerbaijan, Kazakhstan, come pure in Africa. Tutto ciò, oltre ad avere dei costi enormi, potrebbe attirare ancora di più sull’America i fulmini del terrorismo: in tal caso l’11 settembre e Katrina sarebbero davvero due tappe di una stessa vicenda. Mentre Bush vola nuovamente in Louisiana per riaccreditarsi come comandante in capo, sfilate di pompieri e soldati in tutto il paese ci ricordano che l’America è in guerra.