Mediorientalia. Rivoluzione libanese?

Dopo molti anni di stagnazione e continuità, oggi il Libano vive una fase di cambiamento. Tutto inizia il 14 febbraio scorso, quando l’ex premier oramai antisiriano Rafiq Hariri salta in aria. La “pax siriana” – in vigore dalla fine della guerra civile con gli accordi di Ta’if del 1989, che avevano ufficializzato l’appartenenza del Libano, rimasta sempre informale, al sistema della “Grande Siria” – non regge infatti alla scossa prodotta dall’esplosione di quell’attentato, e va in pezzi. Non sembri strano: il sistema era già assai indebolito e per ragioni strutturali, a cominciare dalla morte di Hafiz Al-Asad nel 2000 e dalle incertezze sull’esito della lotta di potere tra il vecchio e il nuovo in Siria, al declino economico siriano, alle ripercussioni dell’intervento Usa in Iraq, che crea le condizioni per l’approvazione della risoluzione Onu 1559 del 2004. Così un attentato concepito probabilmente per destabilizzare il potere ancora fluido del nuovo Bashar Al-Asad, assai avversato dagli “Emiri” – la ristretta cerchia di potenti cortigiani, capi dei servizi di sicurezza, oscuri ed eterodossi mistici alauiti che circondava il padre Hafiz – ha invece conseguenze impreviste e sistemiche, tali da intaccare proprio il potere siriano in quanto tale e non solo quello di Bashar. Da allora, è stata una gara di tiro alla fune: i siriani cercano di ricostituire il loro potere, i libanesi – guidati dal druso Walid Jumblatt, non proprio un novizio – tentano di liberarsi da questa soffocante tutela, espressione di equilibri oramai tramontati. Nel mezzo finiscono i più isolati: il 2 giugno viene ucciso il giornalista antisiriano Samir Kassir, il 21 dello stesso mese l’ex segretario del partito comunista libanese George Hawi, mentre domenica 25 settembre rimane mutilata in un attentato la giornalista cristiana May Shidiak. In Libano è dunque arrivato l’effetto domino di una “rivoluzione democratica” partita dall’Ucraina? Il Libano chiede democrazia all’antidemocratico oppressore siriano? Non proprio. E’ sicuramente in atto una rivoluzione, intesa come rivolgimento di vecchi equilibri, e l’obiettivo è certo la Siria. Ma ciò che la muove è una spinta nazionalista, non democratica. Con buona pace dei nostri neocon. Basti guardare alle elezioni legislative di giugno imposte a Damasco dopo il 14 febbraio: il risultato non è stata una ventata di democrazia occidentale, bensì un rinnovato tribalismo libanese. La pressione occidentale per far svolgere ad ogni costo le elezioni (come in Iraq) quasi fossero catartiche di per sé e non per i processi politici innescati, non permette di cambiare la vecchia legge elettorale. Il risultato è stato un trionfo del Libano tradizionale e dei gruppi già esistenti – a partire da Hizballah, che ha significativamente dismesso il vecchio slogan “A Gerusalemme” per sostituirlo con un più attuale e concreto “A Beirut” – e un rafforzamento del sistema confessionale. Non a caso prodotto di quelle elezioni è stato un governo di unità nazionale, dove quindici ministri sono nominati dai partiti dell’opposizione antisiriana – i sunniti guidati dal figlio di Hariri, i drusi di Walid Jumblatt e i cristiani delle Forze Libanesi – e gli altri nove (che insieme superano il terzo necessario per poter usare il veto sulle decisioni del governo) sono rispettivamente cinque del blocco sciita Hizballah/Amal e quattro espressi dal presidente cristiano e prosiriano Lahoud. Questo instabile assetto nazionalista oggi è di fronte a un nuovo passaggio: come scrive l’autorevole quotidiano arabo Al-Hayat, “i libanesi differiscono su molte cose, ma tutti sono d’accordo sul fatto che la prossima fase vedrà grandi cambiamenti connessi all’annuncio della Commissione internazionale di inchiesta sull’assassinio del ex Primo ministro Hariri (istituita con la risoluzione Onu 1595, ndr), perché la natura delle responsabilità accertate determinerà come le forze interne agiranno nella fase successiva”. Il 25 ottobre è infatti atteso il verdetto della Commissione capitanata dal magistrato tedesco Detlev Mehlis. Fino ad allora è lecito temere altre turbolenze e attentati. E dopo occhio alle bandiere gialle e verdi di Hizballah, vera forza del cambiamento perché più forte rappresentante di quegli sciiti che oggi sono oramai il 40 per cento della popolazione ma a cui il sistema tradizionale assegna solo il 21 per cento dei seggi parlamentari (al 29 settembre sono morti in Iraq 1928 militari Usa).