Lunar Park

Lasciate ogni speranza: l’ingresso a Lunar Park è consentito solo se accompagnati. Non sappiamo come possa orientarsi, infatti, il lettore digiuno della vita e delle opere di Bret Easton Ellis. Qui si sono mandate a memoria pagine intere, da Meno di Zero in poi, e probabilmente la presunzione di ignoranza non è neanche contemplata: il signor Ellis è piuttosto vanitoso, per tacere del protagonista. Una caricatura perfettamente riuscita, a giudicare dalle prime pagine in cui Bret Easton Ellis – il protagonista – viene descritto unendo i puntini della biografia di Bret Easton Ellis – l’autore. Distrattamente si immagina di procedere lungo il sentiero di un’autobiografia straordinariamente ben scritta. C’è tutto: il divorzio dei genitori e l’assenza del padre, gli inizi al Camden College – esiste davvero il Camden College? – e la bolla di successo in cui “bastava essere fotogenici”, la girandola polemica intorno ad American Psycho, la condotta da rockstar, le droghe e le feste promiscue, il delirio di Glamorama e la fuga dalle mille luci di una città un po’ troppo assediata. Con gratitudine ne riconosciamo i vezzi: Ellis è la musica che ascolta, la gente che frequenta. La pioggia di nomi ricorda quella delle etichette appiccicate ovunque nei libri precedenti ed è – ancora una volta – superfluo chiedere cosa resterebbe della storia una volta eliminato ogni riferimento. Un romanzo diverso. Una vita diversa, nello stesso modo in cui “un abito” è sostanzialmente altra cosa rispetto a “un abito Armani”. Questa è la lingua che parliamo.
Si prosegue con slancio entusiasta, imputando discrepanze minori a imperdonabili lacune nella propria preparazione di groupie. Fino a realizzare, come in un’allucinazione perfetta, che quella lì non può essere la verità. Per quanto plausibile. Il matrimonio del protagonista con Jayne Dennis è lo strappo senza ritorno. Il passo definitivo oltre lo specchio. Non c’entra la sessualità versatile di Ellis, non serve essere devote dello star system: Jayne Dennis – che nel romanzo è una splendida attrice di successi planetari – non risulta appartenere al mondo reale. E comunque, da qui in poi, “reale” non significa più niente.
Il panorama suburbano – ville tutte ugualmente immacolate, bambini tutti ugualmente seducenti sotto l’effetto di psicofarmaci a tutti ugualmente prescritti – si deforma e si oppone al programma borghese di Ellis per inserirsi nella famiglia acquisita. Oltre alla moglie, una bimba seienne distintamente “glam” – ereditata da relazione interinale – e il figlio biologico, Robert. Il ragazzino ha lo stesso nome del padre debosciato di Ellis, fonte d’ispirazione per la figura del (sedicente) pervertito di American Psycho – Patrick Bateman – che però qui sembra esistere davvero: frequenta La Casa e somiglia molto a Bret. Che è anche l’altro Bret. Quello a cui un certo detective, un po’ confuso, di punto in bianco domanda: “Non è un personaggio immaginario, vero, Bret Ellis?”
Santo cielo. Superato il mal di mare, ci sono momenti in cui si alzano gli occhi dal libro e si guarda dritto in faccia al genio. Del marketing, nel caso peggiore. Quando si riabbassano, i lineamenti rimangono distorti sotto le luci artificiali, i bambini sono sempre più smarriti e il racconto invischiato in spirali fitte di orrore e sarcasmo. Ellis – l’autore ma anche il protagonista, il padre ma soprattutto il figlio – gioca con ogni trucco, confonde i piani e le soluzioni, predilige frammenti a incastro e disegna labirinti di schizofrenia in cui finisce per perdersi. E perdere. Sensazionale, ma anche questa non è un’uscita.