Under Cover

Please allow me to introduce myself / I’m a man of wealth and taste / I’ve been around for a long, long year / Stole many a man’s soul and faith / And I was ‘round when Jesus Christ / Had his moment of doubt and pain / Made damn sure that Pilate / Washed his hands and sealed his fate”.
Una presentazione inconfondibile, infernalmente allusiva. A pronunciarla, questa volta, non è la voce nasale a cui di diritto è associata: quest’altra voce ha un timbro meno pastoso e più chiaro; meno potente ma molto, molto più metallico. Questa voce è metallica. E’ familiare e remota a un tempo, curiosa e disturbante. Le metafore si sprecano e i brividi corrono come corrente elettrica: a presentarsi è Mr John Michael Osbourne, meglio noto come “Ozzy”.
Nato a Birmingham nel dicembre del 1948, l’uomo comunemente associato alla genesi dell’heavy metal, tanto in senso musicale quanto in senso iconografico, ne ha fatta di strada, da quando si guadagnava da vivere come garzone in una macelleria: per questo, per l’inarrestabile macchina fabbrica soldi in cui si è trasformato, forse persino oltre i suoi stessi desideri, le tredici tracce dell’appena pubblicato “Under Cover” sono il miglior regalo che Ozzy poteva fare a se stesso e ai suoi ammiratori: tredici cover di altrettanti classici del rock, scelti nell’empireo del genere. Dai Beatles di “In My Life” ai Cream di “Sunshine Of Your Love”, passando per Buffalo Springfield (“For What It’s Worth”), Lennon (“Woman”), King Crimson (“21st Century Schizoid Man”), Moody Blues (“Go Now”) e persino per i gentlemen del rock, i Mott The Hoople di “All The Young Dudes”. Nel farlo, il cinquantasettenne vocalist dei Black Sabbath si spoglia del proprio mito, interpretando con passione e umiltà le canzoni dei suoi artisti preferiti; in questo modo interrompe un digiuno da studio che datava dal 2001 (“Down To Earth”) e dà un seguito di raffinata classe a una carriera solista inaugurata dai classici “Blizzard Of Ozz” (’80) e “Diary Of A Madman” (’81). Accanto a sé raduna un team di tutto rispetto: il batterista Mike Bordin (ex Faith No More, con Ozzy da tempo), il bassista Chris Wyse e (udite, udite) l’ex Alice In Chains Jerry Cantrell alla chitarra. E’ noto quanto l’Ozzman abbia un palato straordinario per i chitarristi (a cominciare da quel tal Tony Iommy con il quale formò il suo primo gruppo): dopo avere lanciato il talento di Randy Rhodes (purtroppo stroncato da un incidente) e quello di Zakky Wilde, l’ultimo southern hero, Ozzy permette qui al grunge Cantrell di sfoggiare un sound anni ’70, filologicamente corposo e abrasivo. Potrebbe sembrare, a questo punto, una banale operazione nostalgia, ma a salvare da ogni rischio è proprio la performance di Osbourne, qui ispirato e intenso – a tratti financo maligno – come non accadeva da tempo. Trascinati da lui, band e ospiti danno il meglio (menzione per Ian Hunter, voce in “All the Young…” e Leslie West, guitar solo in “Mississippi…”), contribuendo a un risultato che parla alle orecchie di tutti.
E se le prime tracce non dovessero bastare a cancellare l’immagine del padre di famiglia dell’insulsa serie televisiva “The Osbournes”, la raccolta si chiude con due autentici capolavori: una “Simpathy For The Devil” che diventa elegia del doppio senso e del “cattivo gusto” heavy; e “Working Class Hero” di John Lennon, con la quale l’ex-proletario Ozzy rispolvera le sue origini. Per la gioia di quella che, da sempre, è la base autentica di questa ultra-romantica versione del blues.