Le vene e i polsi della modernità

Forse non vediamo l’ora di lasciarcela alle spalle, la modernità. Forse siamo stanchi, annoiati, svuotati, oppure disillusi. Sicuramente disillusi. Forse abbiamo bisogno di saggezze millenarie almeno quanto di novità dell’ultim’ora. Forse cominciamo a sentire che alla modernità mancano le fondamenta. Forse, dopo tanti passi avanti, sentiamo il bisogno di fare qualche passo indietro. Tanto più che nessuno ormai si assume l’onere di mettere un fine e dare un senso a tutto questo gran correre verso il futuro. E come non appare vano, allora, il progresso, se non conduce da nessuna parte? Forse il progetto d’emancipazione che la modernità ha coltivato, pur salutare, si è rivelato alla lunga un prodotto povero e vuoto di autentica energia creatrice, di quelle energie fondatrici di civiltà che storicamente si sono sempre alimentate alle profondità dello spirito religioso. Forse ci stiamo rendendo conto che si può certamente lasciare ciascuno libero di seguire il suo bene, ma presto o tardi ci si accorge che in questo modo, lungi dal vedere nascere il bene comune dalla somma di questi vari beni, si giunge a dubitare o perfino a negare che un vero bene comune esista.
Sia chiaro: nessuno pensa ad abiurare l’autonomia conquistata; nessuno pensa ad adottare nuovamente il Sillabo, ma molti cominciano a comprendere che non basta insistere unicamente sull’io individuale e sentono la necessità di spenderlo in difesa di un’identità più grande, alla quale rivendicare con orgoglio di appartenere.
Quando si parla dell’Italia e della crisi italiana si fa comunemente questione del declino economico. Ma il fatto economico o sociale non basta a rendere ragione dell’attuale crisi. Il problema è ben più vasto e profondo; la crisi è crisi di identità: italiana ed europea. Ed è crisi di una civiltà. Non soltanto nel nostro paese, ma anche e non meno palesemente in tutti gli altri, si assiste oggi a qualcosa che si potrebbe forse descrivere come la decomposizione della modernità. Non occorre rintracciarne i segni; nelle banlieue parigine o nei laboratori eugenetici, semmai mostrarne il paradosso, poiché la crisi giunge nel punto in cui il liberalismo consegue storicamente il suo massimo successo. Proprio questo successo dimostra allora quanto sia necessario, per porvi rimedio, non accrescere oltre il necessario le divergenze degli spiriti liberali con la tradizione culturale dell’Occidente, con la sua radice giudaico-cristiana. L’essenziale è anzi che ritrovi con essa il massimo di punti in comune e che soprattutto abbia in comune con essa e stimoli anche in essa il senso della fiducia in se stessa, il senso del rispetto dell’autonomia di tutte le forme della vita dello spirito, senza cedere alla pretesa così minuziosa della scienza moderna, ma anche così piena d’ombra, di eguagliare tutto e tutto spiegare: le leggi e i fenomeni naturali, i batteri e il cosmo, le cose e gli uomini, la coscienza e la fede.
Bene. Ora che ho dato spazio a umori che paiono agitarsi (non so se al fondo o solo sulla superficie) della società italiana contemporanea, debbo al lettore una precisazione: non sto riportando le tesi della fondazione Magna Carta e del suo Presidente d’Onore, il Presidente del Senato Marcello Pera, non sto proponendo le linee dell’incontro liberale tra laici e cattolici così come prova a disegnarlo la Fondazione liberal presieduta dall’onorevole Adornato, non sto neppure sfogliando l’ultima annata del quotidiano Il Foglio; sto parlando invece del clima del nostro paese un’ottantina d’anni fa, quando C. E. Suckert, alias Curzio Malaparte, pubblicava (incredibile a dirsi: sulle pagine de La rivoluzione liberale di Piero Gobetti) un dotto saggio “controriformistico” dal titolo Il dramma della modernità, al quale poi faceva eco una riflessione cattolico-liberale di Angelo Crespi su Che cos’è la modernità. Ho tolto qua e là le virgolette alle citazioni, e inserito, per perfezionare il mio pastiche, qualche riferimento al dibattito odierno, ma le idee, se non sbaglio, si somigliano alquanto (almeno, giudicate voi). Ovviamente i termini della polemica culturale sono profondamente diversi, ma il bisogno di riscoprire e rinvigorire in tempi di crisi l’essenza della civiltà latina e cattolica (le “radici”) mostra una notevole affinità.
Ma che la modernità faccia tremar le vene e i polsi lo si sa da un bel po’. Già il vecchio Marx, nel Manifesto, descriveva un mondo in cui sono dissolti “tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e di concetti antichi e venerandi […]. Si volatilizza tutto ciò che vi è di corporativo e stabile, è profanata ogni cosa sacra, e gli uomini sono finalmente costretti a guardare con occhio disincantato la propria posizione e i propri reciproci rapporti”. Finalmente, scriveva Marx: finalmente la crisi! Ma chi ha oggi il coraggio di un occhio così disincantato? Chi ha ancora il coraggio di pensare non che la modernità è in crisi, ma che la modernità è la crisi? Pensarlo significherebbe forse smettere di dolersi, come si fa da almeno un secolo, per la crisi di tutti i valori (s’è mai visto d’altronde un valore ritornare tutto arzillo in vita, grazie alle nostre doglianze?), e pensare invece che il disincanto stesso è un valore, che la crisi stessa è un valore, poiché ogni crisi non è mai fine senza essere inizio.
Ma chi sa prendere oggi la crisi del tempo come l’inizio di qualcosa? Difficile, perché bisognerebbe pensare cosa prende (o a cosa dare) inizio, mentre è tanto più comodo lamentarsi malinconicamente di quel che viene a finire.