Ultima fermata, Detroit

Il Superbowl che tutta America si aspettava era quello con in campo i Seattle Seahawks e gli Indianapolis Colts. Guidati dal solito, devastante Shaun Alexander, i Seahawks sono riusciti a raggiungere la prima finale della loro storia. Ma ad attenderli a Detroit non ci saranno i Colts di Peyton Manning bensì i sorprendenti Pittsburgh Steelers.
Ben Roethlisberger è un quarterback che l’anno scorso, da esordiente, è riuscito a infilare una serie impressionante di vittorie consecutive, salvo poi crollare per inesperienza nei playoff. Quest’anno ha dimostrato di essere cresciuto riuscendo a portare la propria squadra dritta in finale vincendo tutte e tre le partite di avvicinamento fuori casa. Un record per la Nfl: nessuna squadra ci era mai riuscita prima.
L’altra faccia di Pittsburgh è quella di Jerome Bettis, “The Bus” per gli amici – centoquindici chili per un metro e ottanta scarso – un carroarmato con la faccia buona e i genitori in tribuna a fare il tifo come dei ragazzini. Bettis, al termine della stagione regolare, aveva annunciato il suo ritiro: sono anni ormai che ara i campi di football e spiana le difese avversarie, non è più un ragazzino. Ma aveva un sogno che non osava raccontare: vincere il Superbowl quest’anno, a Detroit, la sua città natale. Gli allenatori di Pittsburgh lo centellinano, a favore del più giovane Willie Parker, ma quando la squadra si avvicina alla linea di meta è sempre Bettis l’uomo designato a portare la palla: una cassaforte nelle ultime 20 yard. Nella semifinale di Conference contro i Colts, all’ultimo minuto di una partita già vinta, con gli Steelers in attacco vicino alla linea di meta, la palla andava come al solito a Bettis, che faceva una cosa che non gli era mai successa quest’anno. Perdeva il pallone. Mentre Manning, il quarterback dei Colts, rientrava in campo per provare disperatamente a portare la propria squadra ai supplementari, in panchina il gigante buono tremava, le mani sulla testa. Addosso il peso di finire la carriera con una palla persa, mettendo a rischio il lavoro di tutta la squadra. Ma il destino spingeva il field goal del pareggio lontano dai pali e toglieva un peso enorme dal cuore di “The Bus”. Alla vigilia della finale di Conference, Bettis parlava ai compagni: “Get me home”. Riportatemi a casa, a Detroit. Ed eccoli gli Steelers nella città delle automobili grazie anche a due uomini della squadra di difesa: Joey Potter, un blitzer con il mirino puntato sul quarterback avversario e Troy Polamalu, probabilmente la strong safety più forte in circolazione. Ora a Pittsburgh sognano di ritrovare una dinastia come quella di metà anni ’70, una squadra dominante all’epoca con quattro Superbowl vinti in sei anni.
Domenica, per il Superbowl numero quaranta, noi tiferemo Pittsburgh senza alcuna esitazione. Perché a noi piacciono le squadre che lanciano e non amiamo particolarmente i giochi di corse. Nonostante Shaun Alexander sia un mostro con la palla fra le mani e nonostante il mondo del football pare voglia tornare alle giocate sicure a dispetto della fantasia e della follia dei quarterback. Peyton Manning, uno dei migliori bracci della Nfl, è sotto processo a Indianapolis e lo stesso Roethlisberg è stato spesso imbrigliato in schemi a basso rischio. Prendersi le responsabilità fa parte del gioco, lo vadano a chiedere a Joe Montana. Noi continuiamo a credere che il football sia una “tasca” che tiene, un uomo che arretra e scandisce il campo con lo sguardo per poi lanciare la palla nel profondo. Il football è un ovale che attraversa l’aria con una rotazione perfetta per poi terminare la parabola fra le mani del wide receiver. Il football è quell’attimo senza fiato dal lancio alla presa.