Berlusconi e Geronzi, privato e politico

Tra le domande più interessanti alle quali negli ultimi giorni il premier Silvio Berlusconi non ha risposto, per chi qui scrive una batte tutte le altre, grazie all’interesse che assume nell’intreccio dei “poteri veri” italiani. Che non sono – ohimé – quelli che si decideranno nell’aspro scontro politico elettorale. Ma sono quelli del “cuore debole” dell’asfittico intreccio banco-industriale italiano. La domanda è chiara, fatta questa premessa: perché Fininvest è salita fino all’1% in Capitalia, rafforzandone il patto di sindacato e inviando il suo amministratore delegato Pasquale Cannatelli nel cda dell’istituto capitolino? Berlusconi ha risposto che non sono domande da fare a lui, è più che noto che da anni non si occupa della gestione degli affari delle sue aziende. Infatti il suo più recente giudizio su Cesare Geronzi risale all’ottobre scorso, e non era economico-finanziario bensì politico. “Capitalia è l’unica grande banca rimasta che non sia di sinistra”, disse allora il Cavaliere.
Partiamo allora da quel giudizio. A parere di chi scrive, è in larga misura fuorviante. Più che la realtà, esprime quella carica di ingenuità di Berlusconi che molti si ostinano a negare, e che invece è uno dei tratti dominanti della sua personalità. E’ verissimo infatti che i vertici del Sanpaolo e di Intesa sono notoriamente distanti da Berlusconi, e che Alessandro Profumo di Unicredit pensa a far banca all’estero ma personalmente non è certo un forzista. Ma che Geronzi sia classificabile a favore di un qualunque partito o schieramento politico che non sia quello che coincide con la valutazione del miglior interesse proprio e per il gruppo che ha saputo costruire negli anni, questo solo uno sprovveduto può pensarlo. Nella sua ormai quarantennale carriera bancaria, il settantunenne figlio di un tranviere di Marino ha saputo prima avvalersi a proprio tornaconto e poi successivamente mettere nel sacco personalità del calibro di Antonio Gava e Ciriaco De Mita, Giuliano Amato e Romano Prodi (quando era all’Iri), Giulio Andreotti e Bettino Craxi. Tute le migliori volpi della prima Repubblica, lui le ha fatte prima correre per sé e poi le ha appese in pellicceria. E’ stato il più munifico sostenitore di quotidiani di partito tramite la storica concessionaria di raccolta pubblicitaria che mise in piedi tra gli anni ‘80 e ‘90, dal Popolo all’Avanti all’Unità fino ai reiterati salvataggi del manifesto, ha scontato più lui che qualunque altra banca italiana i debiti e le anticipazioni future sul finanziamento pubblico dell’intero arco costituzionale. E’ fin troppo noto per doverlo ripetere: come per il calcio o la pubblicità ai grandi, piccoli e piccolissimi giornali per ingraziarsene proprietà e direttori, verso la politica Geronzi ha fatto proprio e ampliato all’inverosimile il vecchio motto di Mattei verso i partiti, “li chiamo, li uso, pago il conto, e poi scendo”. Certo, in questi ultimi anni in cui per Geronzi il conto da regolare è stato quello con Vincenzo Maranghi, per la lettera di Cuccia esibitagli a Meina il giorno del funerale del fondatore di Mediobanca in cui questi nominava il delfino e non il banchiere romano come suo successore – Geronzi ci aveva sperato, visto che Cuccia aveva sostenuto una battaglia all’arma bianca contro tutti i vertici Comit proprio perché la perla milanese portasse all’altare la sofferente banca romana – in questi anni Geronzi ha tenuto un’autostrada politica sempre ben aperta verso palazzo Chigi, contando su un ottimo e collaudato rapporto con Gianni Letta. Ma di qui a pensare che Geronzi si identifichi con le fortune del governo di centrodestra, è tutt’altra faccenda. L’autostrada è stata fruttuosamente percorsa in entrambi i sensi di marcia nella prima fase della legislatura, quella in cui Tremonti puntava le sue artiglierie contro Fazio proprio per il ruolo di grande realizzatore delle successive fusioni e acquisizioni consentite negli anni alla banca romana per annegarvi le proprie sofferenze, e per discusse operazioni come le diverse cartolarizzazioni Trevi1, Trevi2 e Trevi3. Infatti, Tremonti andò a casa e tutti nel governo capirono, che Berlusconi non poteva certo aprire il fuoco contro Geronzi. Il massimo che Berlusconi ha potuto fare – quando Geronzi ha rotto con Fazio, che sul caso Antonveneta intendeva risarcire Fiorani dello “sgarbo” arrecatogli conferendo la pingue, altrochè fallita, Bipop ai romani invece che ai lodigiani – è stato di non prender partito tra Geronzi e Fazio. Finché ha potuto. Perché poi alla fine, il paradosso è stato che sia stato Tremonti, a far vincere Geronzi.
Del resto, che Berlusconi una guerra a Geronzi non intenda e non possa muoverla, c’è una solida ragione storica a confermarlo. Prima che Tatò portasse in Borsa Mediaset e la tirasse fuori da una secca che ne incrinava sempre più profondamente le prospettive, Cuccia aveva detto chiaramente a Berlusconi che la strada era quella giusta, ma sul come fare ci avrebbe pensato lui, se al Cavaliere fosse andato a genio di fidarsi. Il Cavaliere, tenuto fuori da Mediobanca con ostentazione, rispose picche, perché avere Cuccia col naso dentro le sue fiduciarie allora assai più intricate e oscure di oggi non era proprio una garanzia di sicurezza. Pochi ne aveva salvati di grandi gruppi, Cuccia, a condizione poi di dare ordini lui ai padroni, per esserci riuscito. Ma a quel no Cuccia rispose con una secca telefonata, a seguito della quale Comit e Credito Italiano chiesero al Biscione l’immediato rientro di tutti gli affidamenti. Sarebbe stato crac sicuro, se poche ore dopo Cesare Geronzi – colui che più di tutti i banchieri italiani ha saputo interpretare a proprio vantaggio le altrui difficoltà – non avesse fatto toc toc a Berlusconi, offrendo la propria banca come partner immediato a disposizione. Son cose che non si dimenticano, perché senza quel gesto di allora Finivest non scoppierebbe di utili e capitalizzazione, oggi.
Veniamo all’oggi, allora, e lasciamo stare la politica. Su una cosa mi sento di scommettere i pochi euro del mio conto. Tarek Ben Ammar è stato tra i favorevoli, a quell’un per cento Fininvest in Capitalia. Lui ancora più di Doris. Per un quadruplice ordine di motivi, giusto per fermarsi ai più rilevanti in termini di potere reale. Si chiamano Mediobanca, Generali, Telecom e Mediaset. Perché quel 10% scarso di Capitalia in Mediobanca – il simbolo della vittoria su Maranghi – è il bastione vero che impedisce a piazzetta Cuccia di giocare in proprio. Perché quella quota è rafforzata dalle azioni di Capitalia in Generali, che nel risiko bancario italiano sono l’unico vero asset di dimensioni e forza europea rimasto sin qui imbelle, bloccato dai veti reciproci delle banche azioniste che della vecchia Mediobanca hanno avuto ragione: ma nel capitale di Generali oggi i francesi di Bolloré, che sorreggono ancora per poco l’ultraottantenne Bernheim, contano assai più di quanto risulti alla Consob. Tra quote proprie, di fondi amici e collegati, sono ben oltre il 20% e forse il 25. Con l’arma al piede, perché non si fidano e nel futuro non prenderanno ordini. Geronzi è l’unico grande banchiere italiano ad avere con loro un rapporto “in proprio”. E a Berlusconi Tarek lo ricorda sempre, che il Cavaliere si illuse quando pensò che Generali potesse andare con Mediolanum, ma che per Trieste bisogna pensare più in grande, senza mollare l’osso. La terza ragione è Telecom: perché Tronchetti si affanna a far cassa quotando gli pneumatici e dismettendo partecipazioni non strategiche, ma resta il fatto che se le banche in Olimpia dovessero esercitargli la put starebbe nei guai fino al collo, coi 50 miliardi e oltre di debito complessivo che ha sulla groppa. E Capitalia guarda caso è l’unica banca che non ci pensa proprio a mollarlo. Non solo e non tanto perché lui insieme a Ligresti e tanti altri sta nel suo patto di sindacato. Ma perché con i cinesi di 3 in panne e Wind nei guai per l’Ipo anunciata entro fine anno non si sa in base a quale trimestre di ipotetici buoni risultati, tranne la Omnitel di Vodafone è l’intera telefonia italiana ad avere la broncopolmonite. E Geronzi non ci pensa nemmeno a rinunciare a dire la sua, come farebbero banchieri attenti solo al proprio conto economico e non al potere vero. Che per Fininvest-Mediaset – nell’ipotesi che salti la Gasparri e l’intero comparto della comunicazione italiana muti di orizzonte e tetti antitrust – sia più che strategico tenere i piedi ben saldi dentro la partita, è più che ovvio.
Bastano, come buone ragioni, per gli 80 milioni di euro con cui Fininvest ha arrotondato in Capitalia una quota che ne vale il doppio? Avanzano. A lode e gloria di Geronzi. Uno dei pochi che il potere vero ha saputo usarlo sempre, dettandogli l’agenda.