L’Avvenire e l’eredità di Ruini

E’ davvero divertente, oltre che molto istruttivo, leggere Avvenire in questi giorni di campagna elettorale. Da tempo il quotidiano della Cei diretto da Dino Boffo ha smesso di essere un bollettino ufficiale: è un foglio di battaglia, il mezzo di collegamento tra la base cattolica più militante e i vertici della Chiesa italiana. Un anno fa, in occasione del referendum sulla fecondazione assistita, guidò la vittoriosa campagna astensionista ricorrendo agli strumenti di mobilitazione tipici dell’Unità anni Cinquanta-Sessanta: titoli apocalittici, paginoni, corsivi feroci modello Fortebraccio, editoriali infuocati. Con un bersaglio privilegiato: il cattolico “adulto”, i Romano Prodi, Rosy Bindi, Giorgio Tonini, Stefano Ceccanti che si erano dissociati e con motivazioni diverse avevano annunciato che sarebbero andati a votare nonostante il non expedit del cardinale Camillo Ruini. Tutti, Prodi soprattutto, oggetto di strali, ironie e qualche minaccia, neppure tanto velata, di esclusione dalla comunità ecclesiale.
Un anno dopo, in piena campagna elettorale, ci si poteva aspettare un atteggiamento altrettanto netto dal quotidiano ruiniano. Invece, fin dall’inizio, i toni di Avvenire si sono tenuti insospettabilmente sobri. Addirittura freddi, equidistanti, anglosassoni. Fino alla paginata di lettere dei lettori, tradizionale strumento di dialogo con la base militante, che nell’ultima settimana ha assunto il tono di una silenziosa, ma significativa sterzata. E’ successo venerdì 17 marzo, all’indomani del faccia a faccia televisivo Prodi-Berlusconi. Avvenire pubblica sette lettere: di queste solo una critica il presidente del Consiglio. Tutte le altre sono visceralmente ostili a Prodi. “Quando scriverete, voi giornalisti cattolici, che Prodi non può definirsi cattolico, data la coalizione che lo sostiene?”, si chiede un lettore. E giù attacchi contro il regolamento del confronto televisivo che ha danneggiato Berlusconi e premiato la “banalità” di Prodi (“Prodi finiva sempre nei tempi giusti perché non aveva nulla da dire”) e contro una giornalista di Avvenire colpevole di non aver criticato abbastanza la proposta del cuneo fiscale del Professore. Argomenti degni di Libero più che di Avvenire. La sorpresa, però, è un’altra. Il direttore Boffo, tutt’altro che un estimatore di Prodi, decide di replicare ai lettori. E attacca: le regole andavano benissimo, hanno permesso ai due candidati di esprimere i loro programmi. E soprattutto aggiunge: “Permettetemi una cordiale riserva su alcune lettere. E’ la cordialità, di cui avverto l’assenza, che mi dispiace. Si può parteggiare per uno senza perdere rispetto per l’altro. Si può votare per uno sapendo ascoltare ciò che di buono c’è nell’altro” e così via.
Non è solo un fervorino curiale, peraltro tipico nello stile del direttore di Avvenire. E’ la difficoltà della Chiesa in questa campagna elettorale, simile a quella di altre lobby (Confindustria, Confcommercio), i cui vertici si preparano a dialogare con i probabili vincitori (Prodi e il centrosinistra), ma devono fare i conti con una base militante schierata sul versante opposto. Contraddizione acuta per il mondo cattolico italiano: al contrario di quanto si crede, i vertici episcopali, i vescovi, sono decisamente più a sinistra della base. Basta fare un giro su internet per accorgersene: campagne di boicottaggio contro Famiglia cristiana, mail da spedire ai vescovi chiedendo uno schieramento esplicito a favore del centro-destra… Il presidente della Cei Ruini, la testa politicamente più lucida, ha bene a mente due dati. Uno: il risultato di un anno fa al referendum è irripetibile. Il Cardinale sa benissimo che nel 75 per cento di astenuti la presenza cattolica è stata minoritaria, ha messo la berretta rossa sulla vittoria come avrebbe fatto anche il più sprovveduto dei politici, ma senza farsi illusioni su una presunta rimonta del cattolicesimo in Italia che è ancora molto in là da venire. Secondo: ogni azione della Chiesa provoca una reazione uguale e contraria e finisce per portare voti ai partiti di identità laica o laicista, vedi la Rosa nel Pugno. Dunque, come recita un proverbio veneto, “prima di parlar tasi”. Ruini tace, o meglio oggi interrompe il suo silenzio, ma solo per spiegare che per la Chiesa le elezioni non sono un giudizio di Dio e che i toni vanno rasserenati. Forse, in cuor suo, anche lui come tanti altri poteri puntava al pareggio e si era preparato a gestirlo nel modo migliore, con l’inserimento nella Margherita e nell’Udc di candidati fedeli. Ma ora si prepara a trattare con Prodi, di cui in fondo ha celebrato il matrimonio ed è stato buon amico. Il problema è come spiegarlo ai più sciamannati della base cattolica. Boffo ci sta provando.
Ma le posizioni della Chiesa meritano un’altra riflessione. In questa campagna elettorale ci si barcamena tra la tentazione di ripiegare sui temi “cattolici” (vita, famiglia, scuola libera), con l’appoggio ai candidati che si impegnano in questa direzione ovunque siano candidati (un’operazione frustrata dalle liste bloccate che impediscono di votare le “persone”) e un terzismo, di cui si è fatto portavoce Giuseppe De Rita sul Corriere, che propone un’Italia reale contrapposta all’Italia politica di Prodi e Berlusconi. Un’Italia reale che non si sente rappresentata dai due leader, che non vive le elezioni come il giorno del Giudizio, convinta che i problemi veri si affronteranno dopo il voto, chiunque vinca. In entrambi gli atteggiamenti c’è un ritorno al passato del mondo cattolico italiano: da un lato, l’intransigentismo ottocentesco di don Davide Albertario, ostile all’Italia liberale che per l’appunto non rappresentava il Paese e la povera gente, dall’altro, il ritorno del patto Gentiloni, lo scambio tra la candidatura di cattolici “doc” con il loro programma di settore e l’appoggio elettorale a partiti che rimuovono l’ispirazione cristiana. Un bell’indietro tutta, rispetto alla storia del cattolicesimo politico del secondo Novecento, quando i cattolici hanno piuttosto tentato di confrontarsi con la politica senza chiudersi in recinti confessionali, con la pretesa di guidare il Paese: non per trasformare l’Italia in uno Stato neo-guelfo, ma per modernizzarla. Tanto per dire: la Costituzione, le partecipazioni statali, la politica estera di apertura ai paesi del Mediterraneo, il primo centro-sinistra, la solidarietà nazionale, la lotta al terrorismo. E poi, il bipolarismo italiano, i primi referendum elettorali: promossi, è il caso di ricordarlo, dalla Fuci di Tonini e Ceccanti presieduta in quel momento da Giovanni Guzzetta. Tutti momenti in cui i cattolici si sono misurati con la complessità del Paese, hanno avuto l’ambizione di esercitare la leadership politica delle grandi svolte e non solo il supplemento d’anima o la cinghia di trasmissione dei vescovi o il rifugio nel sociale contrapposto alla politica.
Per fare questo oggi servirebbero cristiani adulti. E un laicato cattolico diverso da quello che si è costruito nel ventennio del cardinale Ruini. Come ogni grande leader (e Ruini lo è stato, indubbiamente) il presidente della Cei lascia un’eredità irrisolta. Il problema di laici cattolici capaci di navigare in mare aperto è senz’altro il punto più dolente dell’attuale gestione centralistica e autoritaria della Cei. In assenza di associazioni coraggiose (dov’è finita la vivacità dell’Azione cattolica, ma anche di Comunione e liberazione?), con i presidenti delle associazioni che fanno a gara per candidarsi nei partiti centristi dei due schieramenti, alla faccia della condanna del collateralismo di Rutelli e Casini, tocca ancora una volta ai cattolici impegnati in politica proporre la strada anche del rinnovamento della Chiesa italiana. E’ successo con De Gasperi, che doveva vedersela con Luigi Gedda, ma che alla fine riuscì a costruire una nuova generazione di cattolici “convertiti” alla democrazia. Succederà, forse, in caso di vittoria di Prodi e del progetto ulivista in cui i cattolici non sono ridotti a un’agenzia di difesa dei valori, ma mirano a essere protagonisti. Cominci a spiegarlo ai suoi letttori, il direttore Boffo.