Paradossi post-berlusconiani

Sipario. Il protagonista degli ultimi dodici anni della storia d’Italia si prepara a uscire di scena. Il prossimo candidato del centrodestra a Palazzo Chigi non si chiamerà Silvio Berlusconi: sarà la prima volta dalle elezioni del 27 marzo 1994, inizio di quell’età berlusconiana che si è chiusa per sempre il 10 aprile 2006. Non è la prima volta che il Cavaliere perde le elezioni, si potrebbe obiettare. Ma quasi certamente è l’ultima.
Qui sorge però il primo paradosso di questa nuova stagione. Il Cavaliere è infatti al tempo stesso il principale responsabile della sconfitta e l’indiscusso trionfatore all’interno della coalizione battuta. All’inizio della stagione post-berlusconiana, Silvio Berlusconi è l’indiscutibile leader dell’opposizione e il capo di quello che è di gran lunga il primo partito del paese. Un messaggio che arriva forte e chiaro tanto alla nuova maggioranza, che con lui dovrà ancora fare i conti, quanto ai suoi alleati, che i conti con lui si illudevano di regolarli nelle urne.
Altro spassosissimo paradosso, a causare un simile esito ha contribuito non poco quella legge elettorale proporzionale che alcuni alleati avevano voluto proprio per indebolire la leadership del Cavaliere (e di Romano Prodi), inseguendo il sogno di un riequilibrio dei rapporti di forza interni attraverso improbabili schemi a tre punte. Con loro, vasta parte dell’establishment economico-giornalistico aveva più o meno apertamente tifato per il pareggio, seguito dalla definitiva archiviazione del bipolarismo. E’ finita, invece, con il voto più bipolare che la storia ricordi – per la prima volta era praticamente impossibile non votare una delle due coalizioni principali, salvo per un paio di trascurabili liste civetta – e con la riaffermazione della leadership di Berlusconi nel centrodestra. Con buona pace degli interessati fautori della retorica sulla sfida tra due settantenni che non rappresentavano più nessuno, Forza Italia e l’Ulivo si dimostrano ancora una volta le uniche formazioni realmente rappresentative di questo paese. I voti sono lì per essere contati e non c’è bisogno di infierire sui dettagli, a proposito delle tante promesse mancate e dei beniamini del nostro dibattito pubblico, per tacere della grande stampa internazionale.
Silvio Berlusconi si è dimostrato una volta di più un combattente formidabile, capace di una rimonta che nessuno avrebbe previsto, fino a un soffio dalla più clamorosa e insperata delle vittorie. Con la consueta spregiudicatezza, ha avvelenato i pozzi e si è rivolto direttamente alla pancia della società, con una campagna elettorale a metà tra Le Pen e George W. Bush. Il parallelo con le ultime elezioni americane è evidente: l’altissima affluenza fa saltare tutti i sondaggi, perché alle urne arrivano quelli che potremmo chiamare i lumpen-elettori (senza alcun connotato dispregiativo, sia chiaro). Quelli che stanno sotto le rilevazioni statistiche, i circuiti dell’informazione e ogni altra forma di associazione. Perché anche il partecipare in un modo o nell’altro al circuito dell’informazione è in fondo una forma di associazione. Rappresenta comunque un legame, una rete di relazioni. Quelle forme di partecipazione delle idee e dei sentimenti, anche le più elementari, che rendono possibili i sondaggi. E cioè, in ultima analisi, la selezione di campioni rappresentativi. Al di sotto di quelle reti, invece, c’è la lava incandescente che sta tornando a ribollire nel sottosuolo delle società occidentali, dall’America alla Francia.
Non c’era bisogno di ascoltare la richiesta di riconteggio dei voti da parte della Cdl per prevedere che i veleni di questi ultimi anni di campagna elettorale permanente non sarebbero stati riassorbiti tanto presto. Al contrario, fino all’elezione del nuovo capo dello Stato, si può scommettere che molti altri ventilatori torneranno in azione. Ma se saprà superare questa delicatissima fase, il centrosinistra ha buoni motivi per guardare al futuro con ragionevole ottimismo. La crisi del centrodestra è matura, congelata soltanto dalla speranza di potere ancora in qualche modo raddrizzare la partita, ma superata la prima fase – se Prodi riuscirà a tenere unita la sua maggioranza, fosse anche solo per pochi mesi – è destinata ad allentare la pressione sul centrosinistra e a catalizzare l’attenzione degli osservatori per molto tempo.
Le polemiche sul ridottissimo scarto di voti rischiano però di far dimenticare un dato storico: con oltre l’83 per cento di affluenza, il centrosinistra ha conquistato la maggioranza dei voti a livello nazionale. Fino a pochi anni fa sarebbe stato inimmaginabile. E tanto basti a chi ancora avesse voglia di ripetere la cantilena sull’Italia paese di destra. E’ un dato di fatto che dal 1994 al 2001 nel paese si è consolidato un blocco sociale di centrodestra largamente maggioritario. Anche nel ’96, infatti, l’Ulivo vinse per la divisione tra Polo delle libertà e Lega, i quali sommati avrebbero raggiunto invece il loro massimo storico. Oggi quel dato è drasticamente cambiato. E ora sta all’Unione dimostrare di avere la capacità per chiudere questa infinita transizione, restituendo al paese un sistema maggioritario e bipolare coerente, cancellando questa vergognosa legge elettorale e dando vita a quel partito riformista che con la lista dell’Ulivo ha preso il 31,2 per cento dei voti. Sette punti in più di Forza Italia e tre oltre la somma di Ds e Margherita.
Nel centrodestra, però, la prova di forza berlusconiana lascia il pallino in mano al Cavaliere. A lui sta ora decidere come e quando uscire di scena. E in favore di quale ridefinizione dell’alleanza. Noi ci auguriamo che per una volta mantenga la parola data, avviando la costruzione del partito unico dei moderati. La crisi apertasi nel ’92 con la delegittimazione dei partiti e gli scandali giudiziari di Mani pulite – origine delle fortune politiche del Cavaliere – si chiuderebbe così con la ricostituzione dei soggetti fondamentali della rappresentanza, in una democrazia dell’alternanza finalmente matura. Dove cioè sarebbero i partiti, legittimati dalla partecipazione e dal voto dei cittadini, ad assumere le decisioni fondamentali sullo sviluppo del paese e ad affrontare le sfide più impegnative dettate dalla crisi. Rispetto alla lunga stagione dei governi tecnici, originata proprio dalla crisi economica del ’92, sarebbe se non altro un segnale di progresso. Lento, parziale e difficile, tanto da avere richiesto un impegno pluridecennale e da consegnarci oggi un parlamento in buona parte imballato, ma indiscutibile.