Stadium Arcadium

Arcadia – Con riferimento all’omonima regione greca, quale fu favoleggiata dai poeti bucolici, paesaggio ameno, scenario di vita idillica… *estens. (spreg.) Accolta di letterati o di conversatori inconcludenti”.
Esiste, altrove su questo pianeta, una regione paragonabile – quantomeno secondo gli standard culturali del turismo e dell’immaginario di massa – all’Arcadia?
Un luogo che sia sinonimo di vita equilibrata e naturale; che richiami immagini di spiagge assolate, onde giganti da domare, corpi atletici e abbronzati? Più d’uno, in effetti, ma la California è la vera Arcadia dell’Occidente Moderno: la Mecca del Cinema, la fucina ispiratrice di scrittori e musicisti, la terra del fitness e dell’attenzione all’ambiente. Un luogo così virtuale da dare ai nervi, proprio come l’ultimo lavoro degli all-californian Red Hot Chili Peppers.
La storia dei peperoncini è planetariamente nota, ed è tutta materia per palati hard (rock): genio e sregolatezza; pesanti dipendenze da droga; decessi (Hillel Slovak, l’originale chitarrista) e abbandoni (John Frusciante è proverbiale, ma a “lasciare il gruppo” sarà anche Jack Irons, futuro drummer dei Pearl Jam); ascesa, caduta e nuovamente ascesa. Da indesiderabili a beniamini delle masse e dello star-system, attraverso gli ispirati inizi di “”The Red Hot Chili Peppers” (’84), “Freaky Styley” (’85), “The Uplift Mofo Party Plan” (’87), “Mother’s Milk” (’89), sino al monstre “Blood Sugar Sex Magik” del 1991, un vero capolavoro: dopo anni di tormenti privati, cambi di formazione ed esperimenti stilistici, i RHCP (nella line-up classica, Kiedis, Frusciante, Flea, Smith) trovano il punto d’equilibrio e di forza. Diciassette brani pressati ancora nel vecchio vinile, diciassette rumorosi esempi di crossover, di improvvisazione, di nervosismo muscolare e improvvisi abbandoni: brani come la title-track, “Suck My Kiss”, “Naked In The Rain”, il tormentone “Under The Bridge”, lo scioglilingua “Give It Away”, solo per citarne alcuni, definiscono il RedHot-style, compendiando l’energia e la vitalità che il gruppo emana dal palco, trascinando l’album ad un volume di vendite spaventoso.
Come stremati dallo sforzo (di certo, appesantiti dalle vicende personali), i RHCP smarriscono la dritta via e proseguono con il modesto “One Hot Minute” (’95) per poi riprendersi con il più fresco e dinamico “Californication” (’99). “By The Way” (’02) è solo una costola del precedente lavoro e “Live In Hyde Park” il classico live-tappabuchi.
“Stadium Arcadium” (’06) è il “Blood Sugar…” dei RHCP versione terzo millennio: un gruppo sulla cresta dell’onda, più maturo ed equilibrato, con meno fantasmi da combattere e la consueta, prorompente, padronanza strumentale/vocale. Tuttavia, forse per il peso del confronto, forse per la produzione eccessivamente indulgente di Rick Rubin (era lui in cabina di regia anche per “Blood Sugar…”: qui, viene persino da chiedersi se abbia messo piede in studio), il risultato è buono in sé ma decisamente deludente in assoluto; inoltre, si scambia quantità per qualità. Ben ventotto brani in due cd all’interno dei quali spiccano pochi acuti, come l’illusorio, scintillante inizio di “Dani California”, “Stadium Arcadium”, “Hump De Bump”, “Storm In Your Teacup”, “Desecration Smile”; tutte buone rivisitazioni di uno stile inconfondibile. Il resto appare troppo pensato e rifinito, con l’ansia del piazzamento in classifica laddove – quindici anni fa – la preoccupazione era solo quella di divertirsi e rovesciare gli schemi. Alla fine, “Stadium Arcadium” non appassiona ma non risulta nemmeno da buttare via: come nella definizione del vocabolario, è ameno e inconcludente; bello e asettico. Ma per quanto Frusciante e Flea ci mettano il sangue, Kiedis lo zucchero e Smith il sesso, manca sempre un ingrediente per chiudere. La magia non abita in Arcadia.