Una scelta di vita

Pubblichiamo qui l’intervento di Fabio Mussi al Comitato centrale del Partito comunista italiano (Roma, 20-24 novembre 1989), nell’ambito del dibattito suscitato dalla proposta del segretario Achille Occhetto di dar vita a un nuovo partito della sinistra.

Appartengo a una generazione di comunisti per la quale ancora l’adesione al Pci è stata (come ebbe a dire Amendola) una “scelta di vita”. Non so dire se questi giorni tumultuosi abbiano in qualche modo, come ha detto Luporini, portato offesa, mancato di rispetto ai “militanti”. Giudicheranno loro. Dei nostri militanti mi sento personalmente di condividere tutti i dubbi, le passioni, i timori, ma soprattutto il “senso di appartenenza” ad un partito senza il quale l’Italia sarebbe stata (e sarebbe) più ingiusta, più arretrata, più ottusa. E ciascuno di noi sarebbe più solo.
Badaloni e Luporini mi hanno chiesto conto di una frase: il “bambolotto di pezza”. La frase non è apparsa né in un mio articolo né in un’intervista. Era nel “pastone” di un giornale. E’ stata colta a volo in un corridoio, durante un convegno su Longo. Avevo tra le mani una rassegna stampa che conteneva, tra gli altri, anche un articolo di Zincone, apparso sul Corriere, che si lamentava della “perdita” di un oggetto con cui sfogarsi (un “mangiacomunisti orfano”, secondo l’espressione di Ruffolo). Ecco che allora ho detto, en passant, “c’è chi teme di perdere il suo bambolotto di pezza”. Una battuta un po’ amara e un po’ indignata, in nessun modo cinica. Non era per la stampa, ma soprattutto in nessun modo aveva il senso di un attacco agli intellettuali, il cui contributo – compresi i dubbi, le riserve, le contrarietà – ho sempre ritenuto essenziale a una forza come la nostra e tanto più lo ritengo oggi.
A me pare che noi ora acceleriamo, dispieghiamo scelte che erano già contenute nel XVIII congresso e prima di esso. Quando ho sentito ieri Ingrao esporre i capisaldi di un programma, di forte profilo critico, per la trasformazione di questa società – la difesa dell’equilibrio della biosfera, la messa in valore della differenza sessuale, la contestazione di poteri che sfuggono alla sovranità popolare, il principio della solidarietà di fronte a grandi drammi come la droga – non li ho trovati distanti dalle decisioni congressuali, dalle scelte e dalle posizioni poi assunte, dai contenuti indicati qui da Occhetto. E sono d’altronde i punti veri, gli aspetti programmatici e di valore che ci separano oggi dal Psi.
Ma come sfuggire alla domanda che ci spetta, che investe i nostri doveri di membri di un partito politico che voglia influire realmente sulla situazione? Perché – ecco la domanda – queste idee, questi programmi, questi obiettivi non hanno sufficiente forza espansiva, non conquistano forze adeguate ad un cambiamento reale? “Il nome e la cosa”. Il problema si pone, esattamente perché non si tratta solo di simboli, di mondi simbolici. E se affermassimo che il nome “comunista” non rappresenta oggi un problema diremmo una cosa non vera.
Io so benissimo, con Badaloni, che c’è una specificità del marxismo italiano. Che in Gramsci c’è già una critica allo stalinismo. Che in Togliatti c’è l’elaborazione – di enorme valore – di una lotta per il socialismo nella situazione nazionale. So anche che quel collegamento internazionale è stato anche un elemento di forza, la forza che dà l’esser dentro un flusso di grandi eventi. Certo saremmo poca cosa, senza questa penetrante opera di pensiero e senza la passata azione politica. Anche se, voglio dirlo, non possiamo semplicemente farne l’elogio. Siamo, davvero, il partito delle grandi svolte e dei radicali rinnovamenti. Ma ci sono momenti in cui abbiamo accumulato ritardi, non tutti giustificabili: dopo il ’48 sotto il peso della guerra fredda; dopo il ’56 e il XX congresso del Pcus e, più recentemente, di fronte ad una crisi ed un fallimento storico dei regimi dell’Est (regimi “socialisti”, retti da partiti “comunisti”) abbiamo dovuto attendere l’81 polacco per dare un giudizio compiuto sui sistemi, non solo sugli “errori” e le contraddizioni. E quanto a lungo abbiamo conservato lo schema interpretativo di una “struttura socialista” contrapposta a una “sovrastruttura illiberale”?
Nel momento in cui assistiamo ad una bruciante accelerazione dei processi riformatori, ad una vera e propria “rivoluzione democratica” all’Est i cui esiti sono incerti, qual è la nostra funzione? Una risposta l’abbiamo data: divenire “parte integrante della sinistra europea”. Parte attiva della dinamica nuova, che coinvolge partiti, forze, programmi, ideologie nelle quali si rispecchia il superamento di un assetto del mondo, la crisi dell’equilibrio fondato sui blocchi, l’uscita dalla spartizione di Yalta.
Non mi pare proprio che veniamo prospettando (e io non sarei d’accordo) un ritorno alle magnifiche sorti e progressive del capitalismo. Un capitalismo che, nelle sue forme attuali, non è espandibile a tutta l’umanità, salvo una catastrofe planetaria, e che è – oggi – corresponsabile delle intollerabili condizioni in cui vivono i quattro quinti dell’umanità. Il problema è quello di un nostro pieno ingresso nel campo delle forze socialiste, democratiche, libertarie dell’Europa moderna.
Né va dimenticato che al congresso abbiamo parlato di “declino del Pci” come un rischio, un pericolo, una possibilità concreta. Abbiamo speso ogni energia possibile per arrestarlo. Non sono mancate le parole d’ordine mobilitanti e la mobilitazione effettiva di tanta gente, uomini e donne. Ma la nostra capacità di attrazione, di espansione, di coalizione è debole.
Ed ecco i “paradossi” della situazione italiana di cui parlava D’Alema: un’opposizione che tiene quando si trincera in difesa, un governo che vince attaccando. Una sinistra che nelle sue fondamentali componenti dice di volere l’unità, ma che mai come ora, in questo dopoguerra, è divisa. E in questa situazione paradossale si consuma la crisi della democrazia italiana.
Ciò che sarà il futuro dipende da ciò che avviene oggi. E oggi la moneta cattiva sta scacciando ovunque quella buona. Là dove ci sono istituzioni, rappresentanze, legittimità subentrano poteri extraistituzionali e illegittimi.
Io penso che dobbiamo dare il nostro contributo a superare lo stallo, mettere a disposizione l’enorme capitale umano, politico e culturale di cui disponiamo, per quel progetto di costituzione di una nuova forza politica che Occhetto ha messo all’ordine del giorno.
Con chi? Con quali tempi? Con quali procedure? Dovrà decidere il partito e decidere nella forma più democratica: il congresso. La forma più democratica, se i problemi che ci stanno di fronte sono quelli che discutiamo, non è quella di un referendum o di un congresso/referendum. Mi pare sia quella processuale (anche se non a tempi indefiniti o sfilacciati: cosa che riterrei un errore) affacciata da Occhetto. E credo che questo cammino possiamo e dobbiamo farlo tutti assieme.

Fabio Mussi