Nuovi partiti e riformismo riformista

Temo che il dibattito intorno al nascente Partito democratico abbia anzitutto il difetto di essere un dibattito. Semplifico in maniera forse ingenerosa: se se ne dibatte è perché non se ne è davvero convinti. In realtà, nella lotta politica, non c’è miglior argomento di persuasione di quello offerto dal successo dell’azione. Forse, il giudizio storico scoprirà poi che ciò che si dispiega nella vita pratica ha la stessa realtà delle “immaginazioni che gli innamorati tessono sulle loro donne e le donne sui loro amanti” – come credeva l’ultimo Croce – ma intanto quelle, che pure erano soltanto immaginazioni, avranno almeno mosso all’azione. E invece si discute della necessità di un nuovo soggetto politico, in cui si coniughino le tradizioni migliori – così si dice – del riformismo. E forse, proprio a causa di questo dibattito che pensa il nuovo come il vecchio, il riformismo pare ridotto a simbolo logico incompleto, con un posto d’argomento vuoto, che attende di essere riempito volta a volta dalla variante socialista, cattolica, liberaldemocratica, progressista, di centro, eccetera eccetera. Finché qualcuno non inventerà addirittura il riformismo riformista, la descrizione di ciò che il riformismo è pare che debba rimanere fatalmente incompleta.
Ma almeno ci si tiene stretti alla “necessità”. Almeno fare il Partito democratico sarà necessario. Eppure, se il Partito democratico fosse necessario, ci sarebbe ben poco da dibattere: il Partito democratico sarebbe già una realtà. Per di più, se fosse davvero necessaria, questa realtà sarebbe già tutta contenuta nel processo che dovrebbe porla, e a questo processo essa, sopravvenendo, non saprebbe aggiungere nulla.
A un dibattito sul partito democratico forse però tutto manca, meno una discussione sulle categorie modali. Ancora meno manca una discussione condotta in maniera un po’ speciosa, come se si ignorasse che la necessità di cui si parla è piuttosto, e più debolmente, un’esigenza o un bisogno della società italiana nel suo complesso o anche solo del suo sistema istituzionale e politico. Ed è vero, ma qualcosa deve pur significare il fatto che al Partito democratico si guardi, da parte di molti, soltanto come a ciò che non si può non fare, e non anche a ciò che si può fare.
Bisogna vedere in questa sottolineatura almeno due cose. Per prima cosa, una sorta di invito a inventare. E, sul piano teorico, ad appropriarsi sino in fondo della categoria della possibilità, nella comprensione delle condizioni dell’azione storico-politica. Se un certo storicismo, nella cui tradizione pur si colloca il Partito democratico, ha esercitato una sorta di sguardo meduseo sul corso storico, che non riusciva a non giudicare necessario, è perché in fondo poteva permetterselo. Poteva infatti presumere che quel corso gli fosse, alla lunga, favorevole, e se gli era favorevole non era poi così male che fosse in qualche modo necessario. Ma è un bel po’ di tempo che non appare più così tanto favorevole, e in tutte le sfide in cui il nuovo partito sarà impegnato toccherà piuttosto costruire quel che è favorevole. Questo non significa che per il Partito democratico essere riformista significa essere velleitari. Al contrario: quando la storia fa il suo corso, si può essere anche velleitariamente rivoluzionari, tanto ci pensa la storia a tirare il carro dalla parte giusta. Quando invece non c’è alcun senso che accompagni necessariamente il corso storico, allora bisogna pur inventarsi ragioni che non inseguano la stretta necessità delle cause, ma in qualche modo la precedono. Questa osservazione vale anzitutto sul terreno (non disprezzabile, in ambiente democratico) della retorica della politica: bisogna che la si finisca con le spiegazioni di quel che non si può non fare, le quali tutte guardano all’indietro, e ci si dedichi a immaginare invece quel che si può fare. Tutti i riflessi identitari sono difetti di immaginazione.
Ma c’era una seconda cosa, altrettanto importante. Il Partito democratico è quel che si può fare. L’immaginazione non è fantasticheria. Si immagina quel che ci può essere, a partire da quel che c’è. Bisogna sapere quel che c’è, e dire quel che a partire da lì si intende e si può fare. Questo potere è meno della necessità, ma è molto più di un’astratta possibilità logica. Se almeno è tale. Se cioè questo partito nasce non già per avere la carta d’identità in regola (temo anzi che non ce l’avrà mai, nonostante i prodigiosi sforzi intellettuali di procurargliela), ma appunto per rivendicare – democraticamente – quel potere. Naturalmente, è nota la grammatica delle parole con cui si costruisce il lessico della politica: democratico, riformista, progressista, liberale. Ne son pieni i giornali. Ma è cattiva politica quella che mi spiega cosa vuol dire “democratico” secondo il manuale del buon politologo. Non se ne cava nulla – nulla che dia davvero senso a un progetto simile. Democratico deve voler dire invece qualcosa quanto al modo in cui si organizzano concretamente, si producono e si distribuiscono poteri e interessi, diritti e opportunità, altrimenti è meglio lasciar perdere. Se proprio vogliamo mantenere il compito di disegnare profili ideali, si dica almeno che l’ideale in questione è piuttosto un’idea sul potere. Sul possibile e sul potere: e sull’una cosa solo perché sull’altra.
Infine, i filosofi sono vittime di molte illusioni, ma di una pertinace illusione non sono vittime. Sanno che non si traghetta il passato verso il futuro, compito impossibile e inane; quel che si attraversa, il presente, non proviene infatti dal passato, ma dal futuro. Solo coloro i quali non hanno un futuro, credono di dovere ancora traghettare il passato.