La querelle d’Utrecht dei giorni nostri

Diciassettesimo secolo, anni Quaranta. Siamo in Olanda, in un piccolo villaggio, Endegeest, non lontano dalle grandi città del paese, dove si può vivere tranquillamente nel più completo anonimato. Lì vive il più grande filosofo dell’epoca. Da lì intrattiene una fitta corrispondenza, orgoglioso ma anche preoccupato della penetrazione che le sue idee cominciano ad avere negli ambienti
accademici. C’è in particolare a Utrecht un giovane medico e botanico, Henricus Regius (Le Roy): non lo si riesce a tenere. Insegna la circolazione del sangue, e scrive che l’uomo è un ens per accidens: nulla di sostanziale. E benché l’Olanda sia di gran lunga il paese in cui più liberamente circola la nova philosophia, i custodi della tradizione non stanno a guardare. Il primo teologo e rettore dell’università, Gisbertum Voetius (Voët) apre le ostilità, e in una pubblica seduta accusa di ateismo Regius e indirettamente anche il filosofo a cui dice di ispirarsi, Renatus Cartesius. E Descartes è costretto, suo malgrado, a reagire.
La strategia cartesiana è ispirata alla massima prudenza possibile. Già negli anni Trenta, aveva rinunciato a pubblicare il suo “Monde”, a causa della condanna di Galilei. E così ora al giovane professore che saltabecca dalla fisica alla metafisica con troppa baldanzosa facilità consiglia non di negare o confutare, ma di lasciar perdere. Siano le forme sostanziali “quei poveri e incolpevoli enti scacciati dal loro antico possesso”, come aveva scritto il teologo. Ecco come Descartes suggerisce a Regius di stendere la risposta: “Mi trovo qui completamente d’accordo con l’opinione del Magnifico Rettore, cioè quegli enti incolpevoli, chiamati forme sostanziali e qualità reali, non debbano essere sconsideratamente scacciati dal loro antico possesso; in verità non li abbiamo ancora respinti in senso assoluto, ma sosteniamo soltanto che non ne abbiamo bisogno per rendere ragione dei fenomeni naturali”.
La prudenza cartesiana non servì a molto. La querelle d’Utrecht si prolungò per diversi anni, e Descartes riuscì ad evitare un ordine di arresto solo per intercessione di amici molto potenti. Il cartesianesimo entrò in conflitto con autorità accademiche, politiche e religiose così in Olanda come in Francia, e in ambienti protestanti come in ambienti cattolici. Dopo la morte, i suoi scritti furono messi all’Indice, e il sogno del filosofo di sostituire Aristotele nelle scuole (anche grazie a qualche amico e parente gesuita) si rivelò appunto tale: un sogno. Ma non poteva essere che così. Un altro grande scienziato dell’epoca (e credente), Blaise Pascal, sapeva bene che a causa del progresso della scienza i cieli e la terra non avrebbero comunque più cantato la gloria di Dio – se non, forse, per chi già crede. All’alba della modernità, Dio si fa così un Dio nascosto, absconditus. Ma, come ha detto Hans Blumenberg, un Dio nascosto è, pragmaticamente parlando, un Dio morto.
Orbene, mi pare che il punto sia proprio qui: se o fino a che punto sia possibile a un’anima religiosa conservare una fede inutile. Le discussioni che l’evoluzionismo suscita dal giorno in cui Charles Darwin l’ha messo al mondo riguardano questo punto. Darwin avrebbe potuto ben scrivere, con la stessa prudenza di Descartes: per spiegare l’uomo non mi dispiace che voi chiamiate Provvidenza ciò che io chiamo caso e selezione naturale; io mi limito a osservare che per rendere ragione dei fenomeni naturali – e in particolare dell’uomo – mi bastano appunto il caso e la selezione naturale. Non ho bisogno della forma sostanziale umana, né di fini o di disegni intelligenti. Liberi voi di pensare che dopotutto c’è un fine dietro questa vicenda, che magari mi si rivelerà alla fine dei giorni; libero io di non tenerne, nel frattempo, conto.
In fondo, la scienza la mette così. La scienza non esclude l’idea di Dio. Ma a che serve la fede, se non può dire una parola di verità sulla natura umana? Finché infatti si tratta di gravi che cadono e di pianeti che ruotano attorno al sole, ci vuole un po’ di fatica e un po’ di Inquisizione, ma alla fine ci si può lasciar convincere che la fede è inutile. Ma quando si tratta della forma sostanziale dell’uomo? Si può accettare che la fede sia inutile anche lì? Che neanche la natura umana canti la gloria di Dio? E che fine fa l’essere fatti a immagine e somiglianza di? Si può considerare l’uomo un mero ens per accidens? Ovviamente, nulla impedisce che si continui a parlare dell’uomo come ente morale, e non semplicemente come mero ente naturale, ma su quale fondamento si parlerà dell’uomo come ente morale, quando nulla nella sua natura farà segno verso un fine o una destinazione morale? Sarà solo un esercizio di buona volontà? E quanto disterebbe questa buona volontà dalla mera ipocrisia? E quanto ci vorrà perché venga spazzato via? O altrimenti: come potrà non tradursi, per resistere, in dogmatismi più o meno espliciti, essendo stata quella volontà privata di qualunque terreno – o, come dicono i filosofi, di una sufficiente base ontologica?
Già, i filosofi. Che fine hanno fatto? Se ne accorgono o no che a dividere le cose così – di qua la scienza, di là la fede – sono loro i primi ad andarci di mezzo? Nel dibattito su evoluzionismo e religione aperto da Claudio Magris sul Corriere della sera qualche giorno fa, la filosofia brilla per la sua assenza. Non pare che i filosofi abbiano più una filosofia della natura da proporre, e non pare sappiano fondare saldamente una morale. E mentre è possibile mantenere una coscienza religiosa anche senza l’una e l’altra, benché ovviamente questo spiaccia al tomismo consustanziale alla Chiesa cattolica, è assai improbabile che la filosofia, in simili condizioni, sopravviva. Pierre Bayle, rievocando nel suo Dictionnaire la vecchia querelle d’Utrecht, scriveva: “Ens per se, ens per accidens sono espressioni inesplicabili […] e quanto alle forme sostanziali, quel che si dice della loro natura, del modo della loro produzione e distruzione, è così assurdo, e così incomprensibile, che non la si può far passare per una dottrina necessaria alla religione senza compromettere pericolosamente le più sublimi verità del Vangelo”. Ora, si può capire Bayle, ma i filosofi, che di sublimi verità non ne hanno più nemmeno una, che diranno i filosofi?