Il lento declino del nanismo industriale

Tra tante discussioni su produttività e competitività del nostro paese – dalle polemiche sulle dichiarazioni di Sergio Marchionne al dibattito suscitato dal recente intervento del governatore Mario Draghi ad Ancona – si tende a rimuovere un elemento di fondo. Il fatto è che a partire dalla seconda metà degli anni Settanta la riduzione dell’economia italiana a quei settori e a quei modelli organizzativi che ancora la caratterizzano – il made in Italy e la piccola impresa – è stata contrabbandata furbescamente per un punto di forza (“Piccolo è bello”, lo slogan più abusato). Eppure, il modello industriale italiano che ci troviamo sotto gli occhi appare sempre più fragile e declinante, anche perché, nel campo della grande impresa, deve fare i conti con l’altrettanto originale fenomeno del capitalismo dinastico. Da questo punto di vista, quello che ci apprestiamo a lasciarci alle spalle passerà probabilmente alla storia come uno dei decenni peggiori dal secondo dopoguerra: fra il 2000 e il 2008 il valore aggiunto del settore industriale è diminuito dell’1,1% in Italia, proprio mentre nel resto dell’area euro cresceva dell’11 (e in Germania del 12,7). Un’autentica débâcle per un modello che alle sue origini, complici le ormai famose interpretazioni di Giorgio Fuà, Giacomo Becattini e Sebastiano Brusco, divenne un autentico caso da letteratura, nonché l’unico contributo di economisti italiani – se si eccettua quello della teoria italo-cantabrigense del valore e della distribuzione – ad aver conquistato una qualche fama internazionale negli ultimi cinquant’anni.
L’idea che la manifattura moderna potesse estendere anche agli scambi internazionali fra paesi sviluppati e paesi del terzo mondo il modello di sub-fornitura già adottato nelle grandi imprese americane a livello nazionale nel periodo fra le due guerre mondiali finì per realizzarsi in quella che Bagnasco e Messori definirono la Terza Italia, facendo da motore di sviluppo di nuove aree industriali che si collegavano direttamente, oltre che a Torino e Milano, anche ai grandi produttori tedeschi di elettrodomestici e di automobili. Nell’ambiente turbolento degli anni Settanta e Ottanta, tra la fine degli accordi di Bretton Woods e i vari sconquassi economici, sociali e politici che ne seguivano, nel nostro paese sorgevano oltre ottocentomila piccole imprese, alcune delle quali (quasi cinquemila) sarebbero cresciute fino a somigliare a una versione in scala ridotta del Mittelstand tedesco, e ad essere l’unico pezzo veramente efficiente della nostra industria.
Molte furono le voci di coloro che – parafrasando scherzosamente il titolo di un famoso saggio di Fuà su questo tipo di sviluppo economico senza fratture – parlarono di industrializzazione senza fatture, per segnalare la ricaduta nefasta, oltre che sul territorio scempiato dalla fungaia di capannoni, anche sulle casse del fisco, private di gran parte dei proventi dovuti dalle piccole imprese e dai loro titolari in forma di tassazione diretta e indiretta. Poche furono invece le voci di coloro che segnalarono preventivamente come la perdita di alcuni settori chiave (tuttora presenti nelle strutture produttive dei più importanti paesi del mondo) non sarebbe stata sostituita dallo sviluppo della piccola e media impresa, dentro o fuori dai distretti industriali. Eppure, se guardiamo oggi la piccola impresa non possiamo non notare come questa previsione si sia rivelata corretta: la piccola e media impresa si è affermata quasi esclusivamente nei settori tradizionali e in linee di produzione mature.
Dal canto suo, il distretto industriale, che doveva costituire l’elemento di successo del “modello italiano”, si è dimostrato inadatto a generare un meccanismo sistematico di crescita in grado di sostenere la penetrazione anche nei settori più avanzati. I profitti sono stati reinvestiti quasi esclusivamente per accrescere l’efficienza del ciclo produttivo, con il risultato che si producono molto efficientemente beni che nessuno vuole più, o perché obsoleti o perché passibili di essere prodotti nei paesi emergenti a costi ancora minori. Nel periodo 2000-08 meno del 5% delle aziende ha condotto una qualche attività di innovazione, e di queste solo un quinto ha fatto innovazione di prodotto.
Proprio la scarsa capacità di innovazione delle imprese italiane è stato identificata dal governatore della Banca d’Italia Mario Draghi come uno dei fattori che hanno determinato – insieme alla crescente precarizzazone dei rapporti di lavoro che ha caratterizzato in massima parte le piccole imprese – il drammatico crollo della produttività italiana dell’ultimo decennio. Il fattore dimensionale, che era stato elemento fondamentale per garantire una certa flessibilità e adattabilità al sistema produttivo, si è rivelato un ostacolo insormontabile in un mercato sempre più globale.
Nell’ostacolare la crescita delle imprese italiane hanno sicuramente giocato un ruolo importante una governance bloccata della proprietà, essenzialmente familiare (per altro sostenuta da ripetuti incentivi all’autofinanziamento che hanno finito per incentivare più che altro l’impresa nana) e da un sistema bancario e finanziario incapace di allocare in modo efficiente l’enorme quantità di risparmio raccolta, fungendo così da vero e proprio freno per lo sviluppo. Ma non va dimenticato come nell’ultimo decennio l’impresa italiana, proprio per le sue caratteristiche, sia stata vittima del mito della concorrenza come mera riduzione dei costi, invece che processo dinamico all’interno del quale gli imprenditori cercano il profitto attraverso le innovazioni, al fine di evitare che le loro rendite vengano rapidamente erose dalle nuove aziende che si affacciano sul mercato. Da questo punto di vista, se vogliamo concepire la figura dell’imprenditore come fornitore non solo di capitale, ma anche di idee, non possiamo non denunciare le enormi carenze della nostra classe imprenditoriale e manageriale degli ultimi anni.
Infine, non vanno dimenticati gli effetti che la retorica liberista ha avuto nel nostro paese, con la politica ridotta al ruolo di semplice spettatore e lo stato messo in un angolo, a disegnare le autorità di controllo e vigilanza di un mercato che in ogni caso avrebbe dovuto fare da sé.
I risultati sono sotto gli occhi di tutti: anche volendo tralasciare la sostanziale scomparsa dell’industria pubblica nazionale, l’unica in grado di fare innovazione e creare esternalità positive per tutto il sistema economico, nel 2007 l’incidenza degli aiuti pubblici nel settore dell’industria e dei servizi (incentivi, crediti di imposta, etc.) è risultata pari allo 0,25% del pil, il valore più basso fra tutti i paesi sviluppati, meno della metà di quello tedesco e un quarto di quello svedese. E anche questo, in una certa misura, è il frutto di tante campagne sullo stato invasivo e sul mercato infallibile e onnipotente.