Gli angosciati becchini del ’900

Anche su una piccola rivista on-line sarà pur lecito, ogni tanto, prendere un più largo respiro, chiudere l’agenda della settimana per guardare non agli ultimi avvenimenti, ma addirittura all’intero corso della storia. E chiedersi per esempio: che cosa è stato il XX secolo? Qual è stato il suo motivo dominante e cosa ci ha lasciato in eredità? Uno dei più vivaci e più discussi filosofi tedeschi viventi, bastian contrario della scuola francofortese che fu di Adorno e Habermas, Peter Sloterdijk, autore di una ambiziosa filosofia della globalizzazione, ha dedicato pochi giorni fa al nostro tema la lezione inaugurale del suo prestigioso corso strasburghese, sulla cattedra che fu di Emanuel Levinas e che del filosofo ebreo lituano porta oggi il nome. Sloterdijk è abituato ad analisi a largo raggio. Non meraviglia dunque che per spiegarci cosa sia stato il XX secolo la prenda alla lontana – non c’è cosa per spiegare la quale un filosofo non la prenda alla lontana – e rintracci un albero genealogico della modernità del quale c’è poco d’andar fieri.
Si va infatti indietro sino alla magia rinascimentale e al suo sogno di dominare la natura, che è il medesimo progetto delle tecnoscienze moderne; si passa per lo spirito di negazione e di disinibizione criminale del marchese De Sade, “prefigurazione del leninismo”; si preleva dalla rivoluzione francese il giacobinismo, “archetipo del fondamentalismo offensivo moderno”; ci si mette sulla scia del socialismo saint-simoniano che per primo ha formulato la parola d’ordine dell’industrialismo moderno: lo sfruttamento della Terra, al quale si è legata ogni promessa di emancipazione degli uomini dal bisogno; si approda finalmente, non senza qualche altro sussulto tra le grandi tragedie del Novecento, sino all’epoca consumistica attuale, feroce parodia del paradiso promesso dalle ideologie della modernità.
Ora, qual è il filo che lega tra loro tutti questi momenti? Per indicarlo, Sloterdijk fa sua una proposta di Alain Badiou: è la passione per il reale, animata da una furiosa impazienza, dalla convinzione, esemplarmente espressa dalle tesi di Marx su Feuerbach, che la realtà non debba essere rispecchiata nella conoscenza, ma trasformata qui e ora grazie all’azione. In età moderna, non si pensa più che la realtà, buona o cattiva che sia, sia così come dev’essere: si pensa al contrario che la realtà non sia come dev’essere, e che perciò vada rovesciata: rivoluzionata. Quel che c’è è un ostacolo, e va spazzato via. Dal 1831, anno della morte di Hegel, al 1969, anno della morte di Adorno, si distende così per Sloterdijk “l’epoca della filosofia critica”, della filosofia come critica radicale dell’esistente, che ha con il suo tempo questo tratto fondamentale in comune: lo spirito di pesantezza, una “metafisica della gravitazione”, l’idea che la verità vada cercata sotto, in basso, e che l’alto (Dio, il re, il padre, il padrone) debba capitombolare giù: che si tratti di petrolio o di inconscio, di materie prime o di verità ultime, ciò che conta sta al fondo (è la struttura, non la sovrastruttura), e dev’essere portato alla luce.
Bene: tutto questo è finito. Se questo è il moderno, il XX secolo ne è stato il tragico epilogo. Se però uno va a vedere non cosa è finito, ma cosa per Solterdjik s’annunzia dopo questa salutare critica dell’estremismo moderno, trova: un rivolgimento “verso l’aereo, lo sradicato, l’atmosferico”, cioè, fuor di metafora, verso la dematerializzazione dell’economia; “un’economia solare mondiale”, cioè l’accesso a fonti di energia rinnovabili (così com’era rinnovabile – su scala ovviamente molto più ridotta – il ciclo annuale della natura nelle civiltà contadine), con annesso ritorno agli “antichi valori”; un epoca post-liberale, anzitutto per quel tratto per il quale l’idea moderna di libertà è legata allo sperpero, allo spreco, al consumo. Quando poi scopriamo che tutto ciò significa, “una sintesi ibrida di avanguardismo tecnico e di moderazione eco-conservatrice”, e cioè, per dirla in termini colorati, “un’alleanza nero-verde”, un brivido ci assale, e una domanda sovviene: non sarà il caso di tornare se non all’azzurro che in questi giorni impallidisce, almeno al bianco e al rosso: a un rosso sbiancato, al rosa, all’arancione, ma insomma a una gamma di colori e di sfumature che prima di dare per finita la modernità sappia pescare da essa qualcosa di meglio che un campionario di funesti radicalismi e spazientiti estremismi?