Alla sinistra serve un corso sugli avversari

Dinanzi allo spettacolo offerto in questi giorni dal cupio dissolvi del centrodestra, uno spettacolo al cui confronto i ricorrenti mega-vertici dell’Unione prodiana erano pranzi di gala, già si ricomincia a parlare di crisi di governo imminente, cambi di maggioranza alle porte ed elezioni in vista. Può darsi che le elezioni rimangano in vista ancora a lungo, naturalmente, senza avvicinarsi né allontanarsi, anche fino alla naturale scadenza della legislatura. Certo è che con una simile ipotesi l’opposizione dovrà fare i conti, nella consapevolezza che alle prossime elezioni davvero non si tratterà più soltanto di un possibile cambio di governo. Quella che sembra finalmente avviarsi a conclusione, infatti, è un’intera fase della storia d’Italia. Un ventennio, per l’esattezza.
Qui si pone però il tema delle difficoltà in cui versa l’opposizione, che alla gran parte degli osservatori sembra non ancora pronta ad assumere l’iniziativa. Un tema trattato sulla stampa con inesauribile dovizia di dettagli e con un’attenzione persino superiore a quella dedicata alla crisi della maggioranza, ma con una sollecitudine particolarmente evidente nei confronti del Partito democratico, e niente affatto benevola, che coglie tuttavia un innegabile dato di realtà. Al tempo stesso, però, la stampa sembra piuttosto refrattaria ad analizzare le cause profonde di questa complessiva debolezza del nostro assetto politico. Preferisce di gran lunga vivisezionarne le manifestazioni superficiali, specialmente se al tavolo operatorio è chiamato il principale partito di opposizione.
La verità è che l’intero sistema politico che ha retto l’Italia in questi venti anni, la cosiddetta Seconda Repubblica, è andato modellandosi progressivamente sulle esigenze e le peculiarità di una figura eccezionale come quella di Silvio Berlusconi, che ha imposto al paese un nuovo modello di partito (il partito personale, proprietà privata del leader), un diverso modello istituzionale (il “presidenzialismo di fatto” che con lui si è affermato, forzando fino all’estremo limite e oltre i vincoli costituzionali già duramente colpiti dai referendum degli anni Novanta) e un’altra idea di leadership politica (il capo carismatico in dialogo permanente e diretto con il suo “popolo”, senza mediazioni).
La crisi del berlusconismo è dunque la crisi di un intero sistema, e prima ancora di una cultura politica, lungamente introiettata dalla sinistra, che in molti casi di queste innovazioni è stata essa stessa artefice, a cominciare dall’introduzione del sistema maggioritario, in nome della “governabilità” e della lotta alla “partitocrazia”, giusto un attimo prima che Berlusconi, trovandosi la strada così gentilmente spianata dai suoi avversari, scendesse in campo e ne raccogliesse i frutti. La fine del ventennio berlusconiano impone pertanto alla sinistra una riflessione severa e difficile. Un ripensamento di molte delle sue categorie e delle sue stesse parole d’ordine. Ed è un lavoro che non s’improvvisa.
Quando ad approssimarsi era la fine di un altro e ben più tragico ventennio, nel 1935, Palmiro Togliatti dedicava buona parte delle sue energie a quel Corso sugli avversari per la scuola quadri di Mosca che un giorno, nell’Italia liberata, sarebbe diventato famoso col titolo di Lezioni sul fascismo. La più acuta, rigorosa e profonda analisi del regime, delle sue basi di consenso e della presa delle sue organizzazioni collaterali, tra tutte quelle prodotte allora, e anche dopo, dalle forze di opposizione.
Crediamo che all’opposizione di oggi non serva nulla di meno. Ma questo naturalmente non significa che intendiamo paragonare neanche per scherzo il ventennio berlusconiano alla dittatura mussoliniana. Tanto meno intendiamo suggerire l’affiliazione del Pd a una riedizione del Comintern, né proporre come modello il Partito comunista di Togliatti. E men che meno paragonare a quest’ultimo alcun dirigente del Pd.
L’unico modello che ci pare proponibile sta proprio nel testo di quelle lezioni, nel metodo e negli obiettivi con cui furono pensate. Non per nulla anche uno studioso insospettabile come Renzo De Felice ne elogiava l’analisi del regime “sotto il profilo più importante e caratteristico di regime reazionario di massa”, e ne lodava persino il “modello metodologico che può benissimo essere applicato anche ad una ricerca di tipo storiografico e non solo ad un’analisi politico-pratica”, nella convinzione che “tra i contemporanei l’unico che comprese la grande importanza delle organizzazioni di massa fasciste fu Palmiro Togliatti”.
Ed è proprio dagli scritti di De Felice, come il classico Le interpretazioni del fascismo, che emerge con la maggiore evidenza il parallelo tra lo stato delle opposizioni al regime prima dell’iniziativa di Togliatti e la condizione dell’opposizione attuale, con tanti intellettuali, politici e giornalisti oggi fermamente convinti, come molti a suo tempo del fascismo, che il berlusconismo non sia altro che la conseguenza di una “malattia morale” dell’Italia, una febbre dell’anima comunque destinata a passare, una parentesi nella storia della Repubblica; o che sia semplicemente la “rivelazione” dei mali storici del nostro paese, della sua arretratezza, del suo mancato sviluppo, se non proprio delle sue tare genetiche. Interpretazioni, ieri del fascismo e oggi del berlusconismo, che dietro una rassicurante radicalità nascondono sempre lo stesso rifiuto di fare i conti con la storia, con la politica e soprattutto con la realtà.
Quello che ancora stenta a emergere, nell’Italia di oggi, è il corrispettivo della posizione di Togliatti, che non appena rientrato nel paese, tra non poche critiche e accuse da parte azionista che sarebbe facilissimo attualizzare nel gergo delle recenti discussioni interne al Pd, annunciava la svolta di Salerno. E cioè nientemeno che la volontà del Pci di trovare un accordo per formare un governo, in piena guerra, con il maresciallo Badoglio e con quel re che aveva allegramente continuato a regnare per tutto il ventennio fascista.
Il Partito democratico, ci domandiamo, sarebbe capace di assumere oggi una simile iniziativa? Temiamo proprio di no. E non solo perché gli mancherebbe l’appoggio, certamente decisivo per Togliatti, dell’Unione sovietica e di Stalin. Ma perché alla base di quella svolta, quale che sia stato il ruolo di Stalin nella vicenda, stava innanzi tutto un’analisi accurata e realistica del modo in cui si era affermato e mantenuto al potere fino ad allora il regime fascista. Un’analisi rigorosa, per nulla autoconsolatoria e tanto meno rivolta a eccitare gli animi dei propri sostenitori (figurarsi poi l’indignazione), che Togliatti aveva esposto prima di tutto ai suoi, a buona parte dei quadri del partito che con lui sarebbero dovuti tornare in Italia. E proprio per questo, in quelle lezioni, non si preoccupava di giustificare tutti gli errori, che furono molti e gravi, compiuti dal suo partito o più in generale dalle forze di opposizione. Tanto meno di descrivere il regime come una cricca di banditi riusciti miracolosamente a prendere il potere, vuoi per il tradimento, la codardia o l’inadeguatezza delle opposizioni, vuoi per l’ignoranza, la viltà o la stupidità del popolo italiano. Simili interpretazioni di comodo circolavano abbondantemente allora, specialmente negli ambienti democratici e liberali, prima del ritorno di Togliatti. E circolano abbondantemente oggi a proposito del berlusconismo e delle difficoltà dell’opposizione. Ma finché la sinistra non riuscirà a sbarazzarsene, difficilmente potrà uscire da quelle difficoltà, trovare in questo paese gli spazi di agibilità politica e le basi di consenso necessari ad assumere l’iniziativa.
E’ invece da un approccio analogo a quello togliattiano che dovrebbe ripartire oggi la riflessione nelle forze di opposizione, e innanzi tutto nel Pd. Non si tratta di “moderare i toni” per rivolgersi ai sostenitori dell’avversario o agli indifferenti, esigenza di cui sicuramente non si preoccupava Togliatti quando teneva quelle lezioni (non foss’altro perché sarebbe stato assai arduo rivolgersi a loro dai banchi della scuola leninista di Mosca). Ma proprio affinché i quadri del suo partito, una volta in Italia, potessero assieme a lui rivolgersi a tutto il popolo italiano, Togliatti capiva che questi non dovevano semplicemente sapere come stavano le cose a proposito del regime, né semplicemente imparare a memoria gli elementi fondamentali di una nuova linea politica che certo egli stesso stava ancora elaborando (quella linea che dalla svolta di Salerno sarebbe arrivata fino all’amnistia ai fascisti e al voto sull’articolo 7 della Costituzione, con grande scorno delle forze laico-radicali e azioniste). Ma dovevano apprendere anche, e forse innanzi tutto, quella lezione “metodologica” tanto apprezzata da De Felice sul piano storiografico.
Così Togliatti poneva le basi del suo ritorno in Italia, e del ritorno in Italia del suo partito, allora praticamente sradicato dal paese, con gruppi dirigenti in buona misura o chiusi in carcere o rifugiati all’estero. E così, con l’ottimismo della volontà, crediamo debba preparare il suo “ritorno in Italia” anche il Partito democratico di Pier Luigi Bersani. E a questo scopo pensiamo sia necessario un nuovo sforzo di analisi e una nuova impostazione di tutti i problemi, a partire da un nuovo “corso sugli avversari”, da una serie di articolate e rigorose “lezioni sul berlusconismo” che liberino la sinistra dalle tante letture radicali di questo ventennio. Uno sforzo cui potrebbero utilmente contribuire intellettuali, storici, giornalisti ed esponenti politici di diversa estrazione, che saremmo naturalmente ben lieti di ospitare su queste pagine, per porre finalmente le basi di una ricostruzione che si annuncia certo meno drammatica, ma non meno impegnativa della precedente.