Marcia indietro

Non appena il dato sull’affluenza al referendum di Mirafiori è stato comunicato, si è diffusa l’idea che una partecipazione così alta, attorno al 94 per cento, avrebbe ridotto il peso degli estremisti e consegnato una vittoria schiacciante al fronte moderato. Il risultato finale è stato una vittoria del Sì con il 54 per cento, molto inferiore alle attese. Dunque, delle due l’una: o era sbagliata l’idea che l’alta affluenza avrebbe avvantaggiato i moderati, e noi pensiamo di no, oppure c’era qualcosa che non andava nell’identificazione di “moderati” ed “estremisti” in questa partita. Qui sta a nostro parere il vizio principale di un dibattito ideologico e anacronistico come quello che si è svolto finora. Meglio dunque partire dai dati di fatto. E oggi il primo dato di fatto con cui confrontarsi è che per poche centinaia di voti a Mirafiori non ha vinto il no. La differenza, per la precisione, è stata di 410 voti: 2735 sì (54,05 per cento) contro 2325 no (45,95). Quasi il 46 per cento dei votanti ha rifiutato l’accordo, nonostante la minaccia di perdere il posto. Una minaccia tanto più spaventosa per lavoratori in buona parte già avanti negli anni e ben difficilmente ricollocabili, in tempi di crisi economica e in un paese da tempo in via di deindustrializzazione.
Dinanzi alla forza orgogliosa e disperata di questo moto di ribellione, prima di aggiungere altre parole, bisognerebbe restare un momento in silenzio. Ricordiamo che a Pomigliano, dove pure il risultato era stato molto al di sotto delle previsioni, il sì aveva raggiunto il 63,4 per cento, mentre il no si era fermato al 36,6. Del resto, non si è dovuto aspettare molto per scoprire che le tante ragioni addotte per giustificare l’eccezionalità del caso Pomigliano erano pura e semplice propaganda, visto che pochi mesi dopo, senza nemmeno cercare nuovi pretesti, la stessa ricetta veniva riproposta per Mirafiori. A quel punto, ci è parso evidente che prima di tutto, da parte della politica, occorresse una presa di posizione chiara. E noi stessi non abbiamo esitato a schierarci con la Fiom.
Naturalmente, nessuno di noi si è mai sognato di suggerire ai lavoratori di Mirafiori come avrebbero dovuto votare. Sin dal referendum di Pomigliano, però, abbiamo detto che quel genere di accordi non ci piaceva, e che avremmo voluto sentir dire altrettanto dal Partito democratico. Proprio perché non pensiamo che i partiti debbano sostituirsi ai sindacati, crediamo che da parte di tutte le forze di centrosinistra, dinanzi a un’offensiva come quella di Marchionne, dovesse venire prima di tutto una presa di posizione netta. Prima ancora di cominciare a discutere di articolo 19 dello statuto dei lavoratori e di accordo del ’93, clausole di tregua e modello tedesco, bisognava dare un giudizio del fatto politico che si aveva davanti. E cioè il tentativo, da parte della Fiat, di rovesciare principi ed equilibri consolidati, non per sostituire alle conquiste del passato nuove e più adeguate forme di compromesso e di mediazione tra i diversi interessi in gioco, ma per affermare seccamente il primato assoluto e indiscutibile di una parte sola, l’azienda, libera da ogni vincolo e da ogni responsabilità. Altro che modello tedesco. Semmai, come hanno entusiasticamente dichiarato prima Paolo Mieli e ora anche Carlo De Benedetti, si tratta sempre di quel buon vecchio modello americano che neanche la crisi economica mondiale è riuscita a togliere dal cuore e dai sogni del nostro establishment.
Quanto a quelli che portano a esempio la Germania per sostenere le scelte di Marchionne, c‘è poco da dire, se non che fanno il solito gioco delle tre carte. Se ad esempio gli operai tedeschi devono fare i conti con una disciplina più rigida in materia di sciopero, ma guadagnano il doppio dei loro colleghi italiani, oltre a eleggere loro rappresentanti nei consigli di sorveglianza delle aziende, subito i nostri azzeccagarbugli ci spiegano che per arrivare a questo El Dorado, ma guarda un po’, bisogna cominciare per forza dalla disciplina più rigida in materia di sciopero. Come dire che per ottenere migliori condizioni, in una trattativa, la prima cosa da fare è presentarsi legati e imbagliavati, sicuri che la controparte apprezzerà il pensiero. Se poi questi discorsi capita di sentirli anche dai politici che dovrebbero rappresentare il mondo del lavoro, non stupisce che le elezioni le vinca un miliardario di destra.
Del resto, proprio lo scontro attorno alla Fiat ha messo in evidenza l’estremo anacronismo di gran parte delle categorie utilizzate da politici e intellettuali della sinistra, apparentemente ancora prigionieri di schemi, formule e riflessi condizionati caratteristici degli anni Novanta. E così, ancora oggi, abbiamo avuto da un lato il consueto appello di Micromega a nome della “società civile”, dove si definisce l’accordo voluto dalla Fiat e sottoscritto da Cisl e Uil un “equivalente funzionale” dello “squadrismo contro le sedi sindacali, con cui il fascismo distrusse il diritto dei lavoratori a organizzarsi liberamente”; dall’altro i soliti ritornelli sul “conservatorismo” dei sindacati e della sinistra, ripresi pari pari dai giornali della Fiat e ripetuti senza esitazione da molti autorevoli esponenti del Partito democratico.
In compenso, almeno fino a oggi, il segretario della Fiom ha usato toni, parole e argomenti molto diversi da quelli dei soliti esagitati che parlano di “fascismo aziendale”. Nei suoi interventi pubblici Maurizio Landini è stato al merito degli accordi, non ha usato parole grosse né ha cercato formule a effetto, ha parlato con precisione di condizioni di lavoro e di problemi oggettivi, materiali, concreti. Una retorica che non si sentiva da molto tempo e che è entrata come una ventata d’aria fresca nel nostro asfittico dibattito pubblico, da anni sempre più disperatamente ideologico, isterico e fumoso. Ora sta a Landini non riportarci tutti al punto di partenza, non accettare la logica della scontro frontale e della radicalizzazione politica, non mischiarsi ai demagoghi e non prestarsi alle loro strumentalizzazioni. Altrimenti, disperderebbe in un attimo il patrimonio di credibilità che fin qui ha saputo guadagnare a se stesso e alla sua organizzazione. Da questo punto di vista, l’enorme risultato del no lo carica di una responsabilità in più. Ci auguriamo che ne sia consapevole.
Quanto al Partito democratico, in questi mesi lo abbiamo criticato più volte per il modo in cui ha affrontato, e più spesso non affrontato, la vicenda Fiat. Il risultato di Mirafiori ci pare faccia giustizia di molte affermazioni avventate, da parte della minoranza veltroniana, ma anche di molte incomprensibili timidezze, da parte del segretario e dei dirigenti a lui più vicini. Ci auguriamo che ne siano consapevoli anche loro.