Gli ideologi della recessione

Il workshop Ambrosetti che periodicamente si tiene a Cernobbio è da sempre una ghiotta occasione per raccogliere analisi e opinioni sullo stato dell’economia italiana. Se si scorre la rassegna stampa degli ultimi anni i commenti rilasciati dagli autorevoli partecipanti seguono una liturgia fissa e la diagnosi sui mali del nostro paese non subisce mai modifiche sostanziali. I problemi sono sempre i soliti: i conti pubblici in disordine, il debito pubblico troppo elevato, la bassa produttività, l’eccessiva regolamentazione dei mercati dei prodotti e dei servizi, la rigidità del mercato del lavoro, la burocrazia che schiaccia l’iniziativa privata, il welfare troppo generoso, eccetera. Anche il ricettario per uscire dalla crisi segue la stessa litania di sempre: riforme strutturali, cura dimagrante per lo Stato, taglio alle prestazioni sociali, blocco dei salari, più una riforma a piacere scelta da ciascun interlocutore al solo scopo di differenziarsi dagli altri e non eccedere in conformismo.

Il bello è che tutte queste considerazioni provengono da imprenditori, banchieri centrali, industriali, finanzieri, politici, insomma da quel gruppo di persone che fanno parte della cosiddetta “classe dirigente” del nostro paese e dell’Europa. E se ogni anno la scenetta si ripete sempre più noiosamente uguale a se stessa e i problemi sono sempre lì – anzi si aggravano – forse si può cominciare a ipotizzare che questo insieme di persone non stia dando prova di grandi capacità “dirigenti”. Tanto più che tutte le riforme previste dal ricettario per uscire dalla crisi fanno parte dell’agenda politica del nostro paese da almeno vent’anni, a prescindere dal colore dei governi che si sono via via alternati. Molte di queste sono state attuate – dalle numerose riforme del mercato del lavoro a quella delle pensioni, dalle privatizzazioni dei principali gioielli industriali del paese alle liberalizzazioni di molti servizi – e le cose, invece di migliorare, sono peggiorate.

A remare contro il sacro rosario dell’establishment italiano ed europeo ci si sono messe pure alcune evidenze empiriche che rendono pericolante tutta la ricostruzione. E che impongono alcune domande. Perché, ad esempio, se il problema è il debito pubblico troppo elevato, fra i paesi che sono stati colpiti maggiormente dalla crisi ci sono Spagna e Irlanda, che avevano un livello di indebitamento rispettivamente pari al 36 e al 24 per cento del pil? E perché, se davvero a frenare la crescita è una eccessiva rigidità del mercato del lavoro, la Germania e l’Austria – che secondo l’Ocse hanno un indice di protezione dell’impiego molto più alto di quello del nostro paese – stanno mietendo record occupazionali nonostante la crisi? E ancora: perché, se la chiave di tutto è la produttività, l’Irlanda – che ha avuto la migliore performance continentale dal 1999 al 2010 – è stata tra i primi paesi messi in ginocchio dalla crisi, mentre la Germania, che ha registrato incrementi di produttività assai più modesti e paragonabili a quelli di Spagna e Portogallo, sta prendendo a sportellate tutti gli altri? E perché, infine, la combinazione di riforme strutturali e austerità fiscale, invece di rilanciare la crescita come ci era stato ripetutamente garantito anni fa, anche dall’allora governatore della Bce Jean-Claude Trichet, ha fatto ripiombare l’intero continente in una recessione pesantissima?

La risposta ufficiale è sempre la solita: non si è fatto abbastanza. Il traguardo viene spostato sempre più avanti, l’asticella sempre più in alto. E le responsabilità, ovviamente, scaricate sulla “casta” (definizione da intendersi come riservata esclusivamente al mondo politico, va da sé). Per le affermazioni dell’establishment economico e finanziario europeo non esiste falsificazione possibile. La ricetta è giusta, indiscutibile e politicamente neutrale. Se non produce i risultati sperati è perché è stata applicata male dai politici. Quando qualcuno – è il caso di Innocenzo Cipolletta, che certo non può definirsi un pericoloso sovversivo – annuncia che il re è nudo e spiega che il problema non sta nell’applicazione, ma proprio nel ricettario, ecco scattare le reazioni stizzite. Eppure il nocciolo della questione continua a essere proprio questo: se l’Europa affonda le ragioni vanno cercate in una costruzione comunitaria fragile e nelle scelte sbagliate compiute fin qui.

Con il Trattato di Maastricht e l’introduzione della moneta unica si è scelto di affidare interamente al mercato il difficile riequilibrio fra paesi e fra aree geografiche. Il mercato ha fatto quello che era lecito attendersi: ha preso i soldi dove questi erano abbondanti – nel centro dell’Europa – e li ha trasferiti dove erano più scarsi e dove gli investimenti sarebbero stati più profittevoli, cioè nelle periferie del continente. Solo che, a differenza di quanto avrebbe fatto una ragionata politica economica, il mercato – come è ovvio che sia – ha anteposto il tornaconto personale dei possessori del capitale all’interesse generale. La caccia al guadagno rapido ed elevato ha così premiato il settore finanziario e quello dell’edilizia, e a farne le spese sono state l’industria, la ricerca più avanzata e molte altre attività produttive ad alto valore aggiunto. Attività che – non potendo garantire saggi di profitto analoghi in così breve tempo – hanno visto chiudersi progressivamente i rubinetti del credito.

E così, quando la crisi è scoppiata, i capitali sono tornati al sicuro con la stessa rapidità con cui erano affluiti, lasciando la periferia europea nelle condizioni in cui oggi la vediamo. Le cause della bassa produttività – e quindi della crescita anemica e del sempre maggiore indebitamento – vanno ricercate qui, non certo in un eccesso di tutele per i lavoratori, che ormai sono quasi ovunque solo un lontanissimo ricordo. E davanti a questo disastro cosa ha da proporre l’establishment europeo? Ma è ovvio, che ci vuole ancora più mercato. Abbiamo già dato. E’ ora di cambiare disco.