L’eccezione

Per almeno due decenni la sinistra italiana ha inseguito il sogno di un grande partito «di dimensioni europee», come si diceva all’inizio degli anni novanta, o «a vocazione maggioritaria», come si cominciò a dire a metà degli anni duemila. Sin da allora, però, ha cercato di raggiungere l’obiettivo con la forzatura del meccanismo elettorale, impiantando nel nostro paese, attraverso il maggioritario, un bipolarismo di coalizione (peraltro sconosciuto a qualsiasi democrazia europea). È curioso che dopo vent’anni di tentativi in tal senso, tutti falliti, l’obiettivo sia stato raggiunto nell’unico voto rimasto in Italia che sia ancora regolato da una legge elettorale proporzionale, quello per il parlamento europeo. Ancora più significativo è che l’antico sogno di un grande partito di dimensioni europee sia stato raggiunto proprio quando gli altri grandi partiti della sinistra europea hanno raggiunto ormai dimensioni italiane. Certo un risultato non disprezzabile per un uomo politico, Matteo Renzi, apparso sulla scena come quello che doveva rottamare in un colpo solo la sinistra e i partiti.

Evidentemente, ci sono più cose tra il cielo e la terra della politica italiana di quante ne sognino i nostri politologi. La realtà è andata più avanti di noi e dei nostri rispettivi pregiudizi: quelli di cui Renzi è stato vittima e quelli di cui è stato beneficiario. Un minuto prima del voto eravamo fermi a discutere tra le macerie di una sinistra sfibrata e demotivata, un minuto dopo dovevamo constatare che la sinistra in Italia non è mai stata tanto forte e unita, né la destra tanto debole e divisa. E che il Partito democratico è oggi il più grande partito della sinistra europea (e di quel Pse in cui tanto a lungo ha esitato a entrare).

C’è sempre tempo per perdersi nelle analisi del voto e nello studio dei flussi elettorali, per ascoltare gli stessi sondaggisti che hanno sbagliato tutte le previsioni spiegarci perché gli elettori hanno votato come hanno votato, per sentire gli stessi commentatori che fino al giorno prima ci parlavano di un’Italia del tutto diversa spiegarci ora come stanno davvero le cose, e per sapere da ciascuno di loro se abbiano pesato di più fattori economici, politici o addirittura psicologici. Per chi non ha tempo da perdere, invece, la migliore analisi del voto la offre lo spettacolo di questi giorni: il presidente di Confindustria che s’inchina di fronte al «primato della politica», come recitava il titolo dell’editoriale del Corriere della sera (laddove ai tempi del governo Prodi campeggiava quotidianamente la parola «casta» in tutte le sue possibili combinazioni sintattiche); Barbara Spinelli che vanta come grande risultato della sua lista l’avere «dimezzato» il successo del Pd (mostrando una curiosa considerazione delle priorità politiche del paese, e anche della matematica: la lista Tsipras ha preso il 4%, il Pd il 40); Beppe Grillo che a quasi dieci giorni dal voto, non sapendo più che altro dire, decide di denunciare i brogli.

Stretto nella tenaglia tra l’austerità imposta in Europa dalla destra liberale guidata da Angela Merkel e il sovversivismo della destra populista rappresentata in Italia da Beppe Grillo, il Partito democratico ha trovato con Renzi una via d’uscita originale, che gli elettori hanno imboccato con decisione, ma Renzi non era lì per caso. Dalle primarie per conquistare il partito alle manovre per conquistare il governo, fino alle poche scelte compiute da Palazzo Chigi per conquistare gli elettori, l’apparente facilità con cui di colpo tutto è sembrato riuscirgli dipende anche dalla sostanziale difficoltà della battaglia combattuta prima. Una battaglia talmente difficile, quella del 2012, che Renzi la perse, durante le primarie contro Pier Luigi Bersani. Una volta che il convoglio del vincitore è finito fuori strada, è stato chiamato in campo il rottamatore. Ripetere che se avesse vinto allora l’Italia di oggi sarebbe già la prima superpotenza del pianeta o poco meno, oltreché inutilmente maramaldesco, è illogico: se la proposta politica di Renzi avesse avuto già allora la forza di oggi, avrebbe vinto anche allora.

E adesso? Adesso Renzi deve decidere dove investire l’enorme capitale di consenso che ha accumulato. Il suo orizzonte si è improvvisamente allargato. L’entità della sua stessa vittoria gli impone ora di deporre le armi e di pianificare una strategia a lungo termine. Nessuno può pensare di vincere una guerra semplicemente con un’infinita serie di duelli: quando doveva combattere a La Rochelle, anche D’Artagnan rinfoderava la spada e prendeva il moschetto. Renzi ora deve decidere se rimanere l’eterno guascone della politica italiana, puntando innanzi tutto a conservare il più possibile la sua personale libertà di manovra, o se porsi un obiettivo più ambizioso. In altre parole, se intende restare la paradossale eccezione che conferma la regola di una democrazia in cui la politica e i partiti non contano niente, e in cui i poteri economici contano tanto in politica quanto contano poco sul mercato, o se quella regola vuole provare a cambiarla. Noi pensiamo che gli converrebbe farlo, prima che la regola cambi lui: perché sul lungo periodo, inevitabilmente, le regole restano e le eccezioni passano.