Il non detto del Quirinale

C’è una ragione se il semplice avvicinarsi dell’elezione di un nuovo capo dello stato alimenta tante tensioni e suscita tanti foschi scenari. Si dirà che la ragione è banale, trattandosi dell’incarico più importante che una democrazia possa mettere in palio. Ma anche ammesso che sia poi tutto così normale, a questa ragione, e alle tante altre che si potrebbero elencare, da un po’ di tempo se ne è aggiunta un’altra. Il vero problema è che la Seconda Repubblica non ha mai sciolto il nodo della forma di governo: i referendum elettorali e l’ideologia maggioritaria hanno sfigurato l’impianto parlamentare della nostra Costituzione, portandoci a quello che è stato definito un “presidenzialismo di fatto”, senza regole e senza contrappesi. Tanto che gli italiani, per dirne una, sono indotti a credere di eleggere direttamente il presidente del Consiglio (il che permette poi a molti cattivi politici, per dirne un’altra, di gridare al golpe a ogni cambio di governo che non passi dalle elezioni).

Questa prolungata deformazione del sistema ha creato ampi spazi di indeterminatezza, innanzi tutto, ovviamente, per quanto riguarda il Quirinale. Così la scelta del suo inquilino finisce per sovraccaricarsi di significato: l’aleatorietà dei confini che dovrebbero circondare i suoi poteri fa sì che la scelta del presidente finisca di fatto per equivalere a una riforma istituzionale. È questo sovraccarico di significato che provoca poi il corto-circuito per cui la destra presidenzialista chiede un capo dello stato condiviso, mentre la sinistra radicale e tutte le forze quotidianamente più impegnate nel difendere l’impianto parlamentare della nostra Costituzione invocano invece un leader rappresentativo della propria parte. È il peso di questo non detto a distorcere l’intero dibattito, che finisce per apparire così come un mondo alla rovescia, dove coloro che si battono per un capo dello stato eletto direttamente dal popolo lo vogliono rappresentativo del parlamento e coloro che ogni giorno difendono le prerogative del parlamento dalla logica dell’uomo solo al comando lo vogliono invece rappresentativo del loro popolo, se non eletto direttamente dal loro blog.

Trattandosi del capo dello stato, arbitro e garante della Costituzione, forse non sarebbe male se nel vischioso dibattito ormai aperto su tutti i mezzi di comunicazione si mettesse finalmente in chiaro questo aspetto, non secondario, della questione. E cioè quanto effettivamente pesa in tutta questa non-discussione l’idea che abbiamo – noi che ne parliamo, loro che lo voteranno e lui che sarà eletto – dell’attuale equilibrio dei poteri tra governo, parlamento e presidenza della Repubblica. Ma soprattutto in quale direzione vogliamo vedere evolvere un simile equilibrio, che attualmente è ben poco equilibrato, oscillando vistosamente da una parte all’altra a seconda delle circostanze (e delle personalità chiamate a occupare le rispettive posizioni).

Questa è la domanda da cui dovrebbe partire la discussione. E per quanto ci riguarda, rispondiamo subito che noi siamo per la ricostruzione di un sistema parlamentare che lasci al presidente della Repubblica un ruolo sopra le parti, quale si conviene all’arbitro del gioco politico e al garante dell’unità nazionale. Guardando alle mille spinte secessioniste, sovversive e populiste di cui è costellata la storia e purtroppo anche l’attualità della Seconda Repubblica, non osiamo nemmeno immaginare dove saremmo ora se non avessimo avuto un simile argine, come quello che negli ultimi anni Giorgio Napolitano ha saputo garantire in condizioni difficilissime e nel pieno di una crisi interminabile, che non è solo una crisi economica. Non osiamo nemmeno immaginare dove sarebbe ora l’Italia, in questo scenario, se anche la presidenza della Repubblica fosse stata nella disponibilità della virulenta contesa bipolare tra berlusconiani e antiberlusconiani che ha segnato questi ultimi venti anni.