Il gran finale di Obama

Un executive order sul tema cruciale dell’immigrazione; un accordo con la Cina su clima ed emissioni; una serie d’iniziative piccole e grandi sulle questioni climatiche; il rinnovato impegno nei negoziati con l’Iran; l’annuncio, sorprendente e per molti aspetti straordinario, della ripresa dei rapporti diplomatici con Cuba. Il tutto nel mezzo di una significativa ripresa economica, con il prezzo del petrolio (e quindi quello, politicamente cruciale, della benzina) in caduta libera e con il tasso di disoccupazione sceso stabilmente sotto il 6%. No, in queste settimane successive alla batosta elettorale di mid-term, Barack Obama è stato tutto fuorché un’anatra zoppa. Anzi, liberato da costrizioni politiche ed elettorali e, a quanto pare, anche da residue inibizioni costituzionali sull’uso dei poteri presidenziali, sembra operare con l’audacia, l’incisività e, anche, la spregiudicatezza che gli erano spesso mancate nei precedenti sei anni di governo. Come si spiega questo nuovo Obama e quanto di ciò che sta facendo è destinato a resistere alla inevitabile controffensiva dei repubblicani, che da gennaio disporranno al Congresso di una maggioranza come non si vedeva da decenni?

Le cause innanzi tutto. Agisce in primo luogo una lettura delle ragioni delle débâcle elettorali del 2010 e del 2014 diversa da quella proposta da molti commentatori e dalla parte più moderata del partito democratico. Il convincimento è che la sconfitta sia dovuta in parte a ragioni strutturali – lo svantaggio fisiologico del partito del presidente alle elezioni di mid-term o mappe elettorali particolarmente ostili – e in parte a un’eccessiva timidezza, che ha impedito di mobilitare l’elettorato giovane e le minoranze, cruciale invece alle presidenziali del 2008 e del 2012. In un voto dalla forte natura identitaria, si ritiene che i democratici abbiano quindi fallito per difetto di coraggio. A dimostrarlo sarebbero l’analisi disaggregata del voto (che nel caso dei repubblicani rimane primariamente anziano e bianco), i sondaggi di opinione e, anche, l’esito di molti referendum statali tenutisi nella tornata di mid-term, che hanno premiato molte proposte care ai democratici a partire dall’aumento del salario minimo. E questo porta a una seconda spiegazione dell’attivismo post mid-term di Obama: il convincimento, di nuovo confermato dai sondaggi, che l’insoddisfazione profonda e radicata dell’America non sia solo o tanto nei confronti del presidente, quanto verso una politica inefficace e incapace di decidere, paralizzata da veti incrociati e ostaggio di opportunismi e calcoli elettorali.

Secondo Gallup, il tasso di approvazione dell’operato di Obama è stabile tra il 40 e il 45% (a chi, come il buon Angelo Panebianco sul Corriere della sera, sostiene che si tratti di uno dei presidenti più impopolari del dopoguerra è opportuno ricordare come il dato sia più o meno in linea con la mediana delle rilevazioni Gallup dal 1938, anno del loro inizio, a oggi e che presidenti come Truman o Bush Jr. arrivarono a livelli di consenso di molto inferiori a quelli di Obama). Il tasso di approvazione del Congresso si colloca invece attorno al 15%; dopo la riconquista repubblicana della Camera nel 2010 non ha mai superato il 20%. Agire per iniziativa presidenziale e farlo, in alcuni casi, con una chiara forzatura del dettato costituzionale è possibile proprio grazie a questa insoddisfazione dell’opinione pubblica, che può premiare il populismo della destra e al contempo apprezzare il decisionismo da “presidenza imperiale” di Obama. A maggior ragione se ciò avviene su temi rispetto ai quali l’irrealistico dogmatismo repubblicano è sotto gli occhi di tutti. Per restare a due iniziative recenti: è immaginabile deportare tra i dieci e i quindici milioni d’immigrati illegali, con costi stimati di 200/300 miliardi di dollari? È sensato continuare una politica di rigidità e ostracismo verso Cuba, che isola gli Usa nelle Americhe, non sortisce alcun risultato e sembra aiutare quel regime che si vorrebbe invece trasformare? Vi sono infine precise condizioni politiche che facilitano l’azione del presidente.

Obama è libero da condizionamenti elettorali e può cercare di usare questo biennio per lasciare quel segno nella storia che finora gli è sfuggito, è vero. Ma in una certa misura è anche facilitato dalla prossima scadenza delle presidenziali. Le primarie democratiche impediscono ai suoi possibili critici dentro il partito, a partire da Hillary Clinton, di denunciare posizioni apprezzate da una larga maggioranza di coloro che andranno a scegliere il proprio candidato nel 2016. Le iniziative di Obama sull’immigrazione sono a loro volta fondamentali per catturare quel voto ispanico di cui qualsiasi aspirante presidente avrà bisogno nel 2016. Sulla politica estera, la linea del dialogo e del multilateralismo rimane quella preferita da una maggioranza degli americani, memori degli anni disastrosi di Bush e poco inclini ad altre avventure, soprattutto in Medio Oriente. Infine, iniziative di semplice buon senso – come appunto quelle sull’immigrazione e su Cuba – tornano a evidenziare la frattura profonda presente nella controparte repubblicana e il peso, a oggi affatto marginale, delle sue componenti più estreme.

Repubblicani che hanno ovviamente ancora molte frecce al proprio arco. Che useranno la maggioranza al Congresso per fare quello che hanno fatto dal 2010 in poi: sfruttare la situazione di governo diviso per paralizzare l’azione dell’amministrazione e per promuovere iniziative dall’alta valenza simbolica, funzionali a soddisfare i settori più radicali del proprio elettorato. È possibile che su questo trovino una sponda in una Corte Suprema che – al di là dei suoi equilibri interni, oggi favorevoli ai repubblicani – non può che guardare con perplessità all’uso ampio, e certo discutibile, degli impliciti poteri esecutivi da parte del presidente. Che per anni ha cattedraticamente sottolineato i limiti che la Costituzione imponeva alla sua capacità d’azione e l’obbligo conseguente di giungere a delle mediazioni con il Congresso. E che oggi – per scelta, necessità e tempo residuo – sembra aver deciso di forzare la mano.