I cattivi maestri della buona scuola

C’è da augurarsi che l’apertura del governo al dialogo sulla riforma della scuola consenta di fare maggiore chiarezza, anzitutto riguardo alle categorie di insegnanti precari investite dal provvedimento di stabilizzazione, prima annunciato e ora all’esame del parlamento. Una scelta importante, ma che certo non esaurisce il tema della nuova scuola. Sin dai primi passi di questo percorso il governo ha tenuto infatti a sottolineare che l’obiettivo è una scuola di qualità per tutti i suoi protagonisti: studenti, docenti e tutto il personale coinvolto. Il disegno di legge, che è in questi giorni in discussione in commissione Istruzione e Cultura della Camera, individua i capitoli (cap. VII, art. 21) su cui intervenire per far sì che il buon proposito diventi la leva di un cambiamento concreto: autonomia e valutazione dei docenti, sistema del loro reclutamento e formazione dei futuri insegnanti, sino alle risorse per un loro aggiornamento permanente.

Il progetto è ambizioso, ma molti dei nodi strategici rimangono irrisolti. Insomma, abbiamo stoffa e bottoni, cerniere e filato, ma siamo solo ai primi tagli e le pieghe dell’abito che indosserà l’insegnante del futuro, ad esempio, ancora non si vedono. Sono però fissati alcuni paletti, concernenti formazione e selezione: il buon docente della “buona scuola” sarà tale dopo aver integrato nel suo percorso universitario di studio contenuti disciplinari e pratica dell’insegnamento. Tradotto: dopo la laurea triennale, poniamo in lettere, dovrà continuare in un biennio “professionalizzante”, dove accanto alla letteratura saranno dominanti le discipline didattiche e pedagogiche; il tutto accompagnato da un tirocinio “in cattedra”. Quel che ora avviene, seppur non senza difficoltà, completati i cinque anni di università, verrebbe – né più né meno – anticipato. Siamo sicuri però che la semplicità di questa sforbiciata sia senza conseguenze, tanto per il presunto buon insegnante quanto per la stessa didattica universitaria?

Il dubbio è sollevato ora in un appello pubblico al ministro Giannini, sottoscritto da associazioni e organismi di diverse discipline umanistiche dell’università italiana. La proposta si può riassumere come un richiamo a guardare alle cose come stanno, tanto per quel che riguarda l’attuale preparazione, generalmente parziale, di un laureato triennale, quanto per ciò che ne fa un bravo insegnante. Già, perché si può dare maggiore o minore peso per un buon risultato didattico ad attrezzature efficienti e avanzate, così come a classi eccessivamente numerose. Sembra più difficile negare che se lo scopo è formare ottimi insegnanti, bisogna passare dal rendere appetibile questa carriera per gli studenti migliori. I quali, però, devono avere il tempo di dimostrare di esserlo intorno alle discipline che studiano all’università.

Non so francamente quanto tempo l’autore della riforma abbia impiegato nel chiedersi se un biennio “professionalizzante” vistosamente infarcito di insegnamenti dedicati alla pedagogia e alla metodologia didattica sia utile per attirare uno studente appassionato alla sua disciplina. Potrebbe però essere una buona domanda da cui partire, magari anche allargando lo spettro delle ragioni che oggi limitano l’interesse di quello studente per l’insegnamento. D’altra parte, lo spirito collaborativo con cui diverse consulte accademiche sono intervenute lascia ben sperare, non meno del tono conciliante con cui il governo ha risposto allo sciopero e alle critiche dei sindacati. Nei diciotto mesi lasciati al governo per intervenire con decreti delegati su una decisiva mole di argomenti si potranno raccogliere questi appelli in una discussione che non comprometta l’efficacia della riforma.