Kant per sequestratori

Cominciamo dalla fine: per le due Simone “sarebbe stato sufficientemente coraggioso non tanto rifiutare quel pesante Corano che hanno avuto in dono insieme con le scuse e con i dolciumi, ma accettarlo a condizione: «Noi leggeremo la parola increata di Allah se voi leggerete la Critica della Ragion Pura». Libro contro libro. Lì ci sono loro e qui ci siamo noi”. Sì, ha ragione Francesco Merlo, che con queste parole conclude il suo pezzo su Repubblica, venerdì scorso: noi siamo quelli che leggono la Critica della ragion pura (bastano le minuscole). E Merlo ha ragione su molte altre cose, se non su tutte: sarebbe stato meglio lasciar perdere gli appelli politici; sarebbe stato meglio non confondere un mestiere, per quanto nobile, con una visione del mondo e una politica; e meglio sarebbe non spendere (o non acquistare) i giorni di prigionia come titoli per tracciare futuri scenari e strategie; meglio, infine, vedere nella preghiera dei sequestratori non la pia devozione, ma il più feroce fanatismo. E se la festa va bene, non dimentichiamoci però di coloro che dall’Iraq non sono tornati e non torneranno. Però poi uno si chiede: perché proprio la Critica della ragion pura? Si capisce perché Merlo non abbia detto il Vangelo: testo sacro contro testo sacro. Non si tratta di rivendicare la superiorità della religione cristiana su quella islamica (il famigerato scontro di civiltà), ed è dubbio non che l’Europa e l’Occidente abbiano radici cristiane, ma che proprio queste siano oggi le radici più forti e di più ampia estensione: il comune denominatore di questa parte del mondo. Va bene dunque Kant, simbolo dell’illuminismo e della civiltà giuridica liberale, di una morale laica e di una ragione autonoma. Concedo totum. Però, di nuovo, perché la Critica della ragion pura e non (a fortiori, si direbbe) la Critica della ragion pratica? Non è solo uno scrupolo intellettuale. È vero che siamo figli di Kant, ma chi, al di fuori della ristretta cerchia dei filosofi e dei pochi di memoria lunga che conservano nozioni del liceo, sa qualcosa del trascendentale kantiano, dell’a priori, della dottrina dello schematismo o dell’esposizione metafisica dei concetti di spazio e tempo? E chi (di nuovo, fatti salvi i filosofi, che alla loro tradizione di pensiero tengono eccome) farebbe oggi propri, qua talis, i concreti risultati di quell’opera? Ma, si dirà, in filosofia non è certo questione di risultati, ma casomai di metodo. E infatti è così. Però se siamo tutti kantiani (Ida Dominijanni a Ottoemezzo di venerdì scorso), siamo tutti figli del Kant morale. Tutti, conoscano o meno Kant, sentono la nobiltà della morale kantiana. Si direbbe anzi che la conoscano, che l’abbiano letto o meno: tu devi fare il tuo dovere perché è il tuo dovere, e non perché te ne venga qualcosa; quello che conta veramente è l’intenzione con cui fai quello che fai, l’uomo è fine e non è mezzo, e la vita di un uomo non ha prezzo; la tua libertà finisce dove comincia quella dell’altro; e così via. Il metodo, d’altronde, è lo stesso: critica della ragione è quella, critica della ragione è questa, lì applicata alla conoscenza, qui invece alla morale (e al diritto, e alla religione). E allora perché proprio la Critica della ragione pura? Io sospetto ci sia qualcosa, in quel titolo, che attira maledettamente. Al di là (molto al di là) delle intenzioni di Kant (e di Merlo, che non me ne vorrà). Quello che attira e ancora cattura è la parola: pura. Senza macchia. Il che funziona ancora, purtroppo, come uno specchietto per le allodole. Anche se la purezza, le purificazioni e le epurazioni l’Occidente ha cercato e cerca di lasciarsele alle spalle, perché dove c’è un puro c’è sempre un impuro che va sacrificato ed espulso. Anche se il nostro mondo è frutto di contaminazioni e ibridazioni e rimescolamenti, o forse proprio per questo, il vocabolario si trascina dietro questo bisogno di immacolata purezza . E invece se c’è una civiltà da difendere, è quella dei consumi, cioè dei rifiuti; e insomma, se non dell’immondo, almeno dell’immondizia. Ma non c’è niente da fare. Quel titolo attira maledettamente di più che non Critica della ragion pratica, o Critica del giudizio. E allora: che almeno se la leggano, i devoti della purezza, “ingannati” da quel titolo.