Il partito liberale di massa

Dove è finito il progetto di costruire un partito liberale di massa in Italia? Forse i rovesci del gollismo francese hanno fatto mutare consiglio a quelli che in casa nostra pretendevano di esserne i fondatori? Non c’è dubbio che, nell’ultimo anno, il centrodestra italiano abbia avviato l’ennesima mutazione di pelle. Tale metamorfosi non è senza legami con le difficoltà elettorali della maggioranza parlamentare e col suo distacco crescente dalla società italiana.
Le ragioni della vittoria della Casa della libertà alle elezioni politiche del 2001 rimandano fondamentalmente a quattro fattori: 1) l’adozione dell’Euro, che quindi rendeva impossibile una crisi monetaria simile a quella subita dalla lira nell’autunno del 1994, provocata dalla mancanza di fiducia internazionale per il primo governo Berlusconi (si era rotta quindi, grazie all’ombrello protettivo della moneta unica, l’equazione Berlusconi = pericolo di crisi economica); 2) Forza Italia, un tempo antieuropeista, era entrata nel Partito popolare europeo; si candidava quindi a interpretare in Italia la maggiore forza moderata continentale e diventava un fattore di eurepeizzazione del nostro sistema politico nazionale (oltre ad assoldare come garante interno e internazionale la Cdu-Csu tedesca); 3) il candidato premier aveva mutato la sua proposta istituzionale, passando dal presidenzialismo al proporzionalismo: la carica eversiva interpretata da Forza Italia nel 1994 si era così spenta e quel partito interpretava allora la posizione maggiormente fedele allo spirito costituzionale originario; 4) anche le spinte eversive interpretate da altri partiti del centrodestra venivano in questo quadro messe da parte; Berlusconi poteva così formare una coalizione unica (cosa mai avvenuta nelle precedenti elezioni politiche) formata da quattro partiti tradizionali e radicati nella società italiana; ricordiamo che pochi anni prima la prospettiva di una zona euro ristretta (senza l’Italia) aveva spinto la Lega a chiedere la secessione dell’area economicamente più sviluppata della penisola e un suo ingresso separato nell’euro; ancora nel 1994 Alleanza nazionale si era pronunciata in favore della revisione del trattato di Osimo, rischiando di sollevare un contenzioso sui confini con Slovenia e Croazia, verso un’area quindi in cui a quel tempo si svolgeva una guerra territoriale che poteva coinvolgere anche il nostro paese (si ricordi la proposta della Jugoslavia, all’inizio della guerra, di ritirare le proprie truppe stanziate in Croazia attraverso il porto di Trieste).
Insomma, nella primavera del 2001 il centrodestra offriva al paese una proposta politica più credibile rispetto a un centrosinistra che, dopo cinque anni di buon governo, dilaniato da conflitti politici interni, non candidava alla guida di un futuro gabinetto nessuno dei suoi ministri, sconfessando quindi indirettamente tutto quanto era stato fatto fino ad allora. Nel centrosinistra ebbero la meglio le spinte distruttive, che trovarono in Rutelli un ottimo candidato per una sconfitta onorevole («meglio perdere che perdersi» fu lo slogan dell’allora segretario dei Ds); la coalizione si presentò divisa e con il suo miglior risultato numerico dall’inizio dell’era maggioritaria regalò al centrodestra una maggioranza parlamentare amplissima.
Con la consueta ironia che la politica dimostra in questi fatti, nella lunga campagna elettorale che ci condurrà alle prossime elezioni politiche sembra giocarsi a parti invertite la partita di cinque anni fa, con la differenza rilevante di un’esperienza di governo ben più magra di risultati in questa legislatura rispetto a quella passata. Nella maggioranza si è ormai radicata l’opinione che i propri rovesci elettorali siano dovuti a una recessione economica da imputare, in ultima analisi, alla congiuntura internazionale; è singolare osservare come l’ancillarità verso le spiegazioni economiche dei fatti politici, sempre rimproverata dal pensiero liberale al socialismo come un fattore di rozzezza, si sia ora impadronita dei sedicenti liberali italiani. La verità sembra essere invece più cruda: il paese è fermo semplicemente perché non sa dove andare, perché non trova una classe dirigente in grado di indicare una prospettiva. Il problema è politico, si sarebbe detto un tempo.
Le difficoltà del centrodestra nascono insomma dall’aver mutato parere, e messaggio pubblico, su tutte le questioni che abbiamo elencato in apertura, ovvero su quelli che erano stati i suoi posizionamenti vincenti. Non solo è attaccato l’euro, con una proposta (si dice ispirata dal vicepresidente del consiglio Tremonti) di adozione di una moneta nazionale agganciata alla divisa statunitense; osserviamo per inciso che esattamente la medesima soluzione fu adottata all’inizio degli anni Novanta in Argentina (Peso agganciato al Dollaro) e ha finito col ridurre quel paese in miseria. Ma anche il centrodestra sembra preda di spinte distruttive così come lo fu il centrosinistra: la parte dei Rutelli, Mussi e via elencando è recitata ora da Pera, Ferrara, Tremonti, i quali hanno deciso di dissotterrare la proverbiale ascia di guerra. Vediamo quindi la scena politica occupata da un drappello di guerrieri, che si battono come fossero spinti da energie giovanili mal controllate: quella che dovrebbe essere la spina dorsale culturale della coalizione di governo ha interamente abdicato al suo compito, interpretando la parte della militanza irrequieta in preda a ogni tipo di sollecitazione esterna.
L’elenco delle posizioni pubbliche espresse nell’ultimo anno da questo gruppo di intellettuali, che per una fase si è detto liberale, ricorda molto da vicino gli orientamenti, l’antropologia, se non anche il dettaglio di alcune argomentazioni cui giunse un gruppo di studiosi serbi alla fine degli anni Ottanta. Il nazionalismo; la riabilitazione dell’aggressività come virtù politica; la scoperta (da parte di antichi laici militanti) dell’identità religiosa intesa come superiorità della propria religione sulle altre; l’antisemitismo (intesi qui i semiti come arabi); il diritto-dovere delle nazioni ad esprimersi con la potenza; la nostalgia di un passato in cui gli stati europei gestivano gli affari delle proprie colonie, mentre ora queste ultime si permettono (come l’India o la Cina) di fare concorrenza al nostro sistema di vita; un grezzo biologismo applicato alla storia delle nazioni, per cui i popoli giovani e rozzi riescono a sopraffare quelli ammorbiditi dalla crescita civile.
Ma l’Italia di oggi non è la Serbia di Milosevic. E la democrazia, dove attecchisce, è un’erba molto dura da sradicare.