Tommaso e la forma della verità

Tommaso d’Aquino è certo che Dio esista. Ne è certo, incrollabilmente, per la fede nella Rivelazione. Ne è talmente certo che tutta la sua ricerca razionale è compresa da un’altra certezza, che della prima è corollario: ciò che la ragione può scoprire con le sue proprie forze non può in alcun modo divergere da ciò che la fede nella Rivelazione ci fa conoscere come vero.
Ora, quello che qui sopra ho esposto con brutale sintesi è, con ogni evidenza, il punto di partenza per ogni considerazione storica circa il pensiero di Tommaso, per ogni valutazione della rilevanza di ciò che egli ha scritto nelle sue opere, per ogni giudizio circa la sua importanza e i suoi lasciti nella tradizione del pensiero filosofico occidentale. Pare invece che molti, sia tra i sostenitori sia tra i detrattori di Tommaso, a quel punto si fermino.
Dicono i primi: Tommaso, sul cui insuperato pensiero va costruita una sorta di philosophia perennis, mostra conclusivamente che si dà una ragione che non solo non confligge, bensì concorda con la fede, e da essa è possibile dedurre analiticamente una visione del mondo, un’etica, una serie di orientamenti pratici.
Dicono i secondi: Tommaso è un ferrovecchio, il cui pensiero impregnato di teologia, di fede e di inaccettabili presupposti ontologici più nulla ha da dire all’uomo contemporaneo. E non da ora, proseguono, bensì da secoli, da quando cioè il pensiero laico e scientifico ha avviato lo smantellamento di ogni metafisica.
Il limite di entrambe le posizioni contrapposte è, come già accennato, quello di scambiare per approdo ciò che in realtà è l’orizzonte dal quale Tommaso ci parla. Ciò che egli dice proviene, certamente, dai confini compresi in quell’orizzonte, ma al contempo ne esce, acquista una sua autonomia, schiude una storia degli effetti e delle interpretazioni che va ben oltre il suo possibile sfruttamento clericale (da parte del clericalismo cattolico, che ne fa un immutabile da riproporre in quanto tale; e da parte del clericalismo anticlericale, che rifiuta pregiudizialmente di confrontarsi con esso).
È da poco uscita per Bompiani, sotto il titolo Sulla verità, una nuova edizione italiana con testo latino a fronte delle Quaestiones disputatae de veritate, cioè di uno dei testi più importanti di Tommaso, nato come trascrizione delle dispute accademiche che, istituite periodicamente e con regolarità, costituivano una delle forme in cui si strutturavano l’insegnamento e il dibattito intellettuale nelle facoltà di teologia delle università medievali. In esso Tommaso propone una concezione forte della verità, che egli ritiene legata all’essere, anzi radicata in esso e in Dio (verum è uno dei trascendentali dell’ente, cioè una delle caratteristiche che ogni ente possiede per il fatto stesso di essere, in quanto conosciuto in essenza dal pensiero divino), ma al contempo debole, in quanto soggetta, nel suo essere appresa dal pensiero, alla fallibilità, alla limitatezza, all’essenziale incompletezza dell’intelletto umano: Dio solo conosce l’essenza di ogni ente, l’uomo può al massimo approssimarsi alla conoscenza del vero attraverso l’esperienza sensibile, l’astrazione, la conoscenza per universali, la dimostrazione sillogistica. Come conseguenza: esiste il vero assoluto, non esiste un’assoluta, completa, incontrovertibile conoscenza umana di esso. La quale considerazione dischiude la ricerca inesausta del vero, nella consapevolezza che esso mai potrà essere considerato un “possesso”, un dato, un oggetto definito e conquistato una volta per tutte, e come tale messo da parte, acquartierato per un suo “uso”. Se esiste una verità attingibile dall’uomo, dice Tommaso, essa non può essere altro che il continuo e inesausto approssimarsi a quel vero che c’è, ma resta sempre oltre l’umana possibilità di raggiungerlo. La verità, per l’uomo, non può essere altro che la sua sempre fallibile ricerca. E anche laddove la Rivelazione divina soccorre l’uomo, essa genera una certezza (cioè una consapevolezza della verità) incompleta, perché non può che darsi nelle forme umane della comprensibilità. Dio è assoluto, la conoscenza umana di Lui no. La fede svela all’uomo l’essenziale perché si salvi, non ogni verità, tanto meno la completezza della verità o la verità assoluta.
Certo: detto così sembra quasi Kant. Sembra quasi un maestro dell’ermeneutica contemporanea. Diciamo, perlomeno, che sia Kant che l’ermeneutica contemporanea hanno forse più debiti verso Tommaso (e verso gran parte della filosofia cristiana tardomedievale) di quanto solitamente si sia disposti ad ammettere.
Provocazione finale: se fosse proprio il senso cristiano della verità (una verità assoluta radicata nell’assolutamente Altro) ad avere portato all’uccisione ermeneutica di ogni umana certezza di cui Nietzsche (a questo punto: il tomista Nietzsche) fu precursore? Se la laicità portasse entro di sé, incancellabile e inestirpabile, il segno della sua figliolanza da un pensiero radicato nell’essere di un Dio trascendente? Se, dopotutto, fosse questo il senso difficilmente contestabile dell’espressione secondo la quale la nostra civiltà ha radici giudaico-cristiane? Se non si potesse, alla fin fine, essere laici senza essere (o essere stati, o essere implicitamente) cristiani? Se, capovolgendo l’asserto, ogni cristiano non potesse fare a meno di essere laico, proprio per il fatto di essere fino in fondo cristiano e anzi volendo prendere con la massima serietà il proprio essere cristiano? Non deve forse ogni figlio che voglia prendere la propria strada nella vita desiderare la morte del proprio padre, almeno in sogno o in effigie? E infine: non sono figli, anzi figli per sempre ed essenzialmente a causa del loro stesso gesto, anche i parricidi?