Dismember

Forgiati a Stoccolma nel 1988; primi demo intitolati “Last Blasphemies” e “Reborn In Blasphemy”; processati per oscenità per la canzone “Skin Her Alive” (assolti); autori di brani come “Soon To Be Dead”, “Justifiable Homicide”, “Eviscerated (bitch)”, “Suicidal Revelations”; e ora, a meno di due anni dal precedente “Where Ironcrosses Grow”, i Dismember tornano di nuovo all’attacco con “The God That Never Was”.
In origine un trio composto da Robert Senneback (voce e basso), David Blomqvist (chitarra) e Fred Estby (percussioni), trovano il giusto assetto con una line-up a cinque completata dal cantante Matti Karki e dal bassista Richard Cabeza (Senneback si sposta alla chitarra): il loro sound è death della prima generazione, veloce, aggressivo, senza compromessi. Parimenti infieriscono i testi. Nulla che non si possa ritrovare ogni giorno in un bollettino di guerra o che non appartenga – spogliato della debordante simbologia di genere – alla cronaca o alla storia (“Thanatology” e “Patrol 17” – da “Hate Campaign”, del 2000 – parlano, rispettivamente, di Auschwitz e dell’assassinio di alcuni agenti). Il vero cavallo di battaglia dei Dismember è però la religione: e un titolo come “Il Dio Che Non E’ Mai Esistito” riassume con lapidaria efficacia quanto esposto sin dalle prime incisioni. Votati a un agnosticismo senza eccezioni già nei confronti del regno temporale, proclamano l’inesistenza di quello spirituale, arrivando sino all’atroce sberleffo di “Hate Campaign” dove il narratore incontra Dio, Allah, Krishna, Satana e Hitler, rifiutando le tesi di ognuno. “The God…” rischia quindi d’innescare un’ondata di rabbia e sdegno in un’epoca nella quale anche una semplice vignetta può finire al rogo.
Certamente si pone il problema del rispetto delle altrui sensibilità: ma qui siamo all’interno di un genere fondato sul consapevole superamento di ogni limite, non solo nella velocità di esecuzione. Se non si è disposti ad accettare il confronto è più saggio non ascoltare. Viceversa, se si preme play, si deve sapere a cosa si va incontro ed essere, se possibile, attrezzati.
Non si discute la perizia tecnico-compositiva del gruppo, giunto a piena maturazione. Con i recenti acquisti Martin Persson e Tobias Christiansson (usciti Senneback e Cabeza) scolpiscono undici tracce di buon livello, fedeli al canone che li accomuna a band come Obituary ed Entombed; arricchendolo con efficaci cambi di ritmo e digressioni “maideniane”, soprattutto negli assolo di chitarra. Spiccano la strumentale “Phantoms (Of The Oath)”, “Feel The Darkness” e “Time Heals Nothing”; “Shadow Of The Mutilated” e “Autopsy” confermano la vena gore del gruppo e si segnalano per l’ottima interpretazione vocale; “Blood For Paradise” è tutta nel titolo. Discutibile, invece, l’acritico, furioso nichilismo con cui il gruppo dispiega la propria visione del mondo. In alcuni passaggi si rasenta l’apologia (rischio di cui la band appare consapevole) in un gioco d’equilibrio assai delicato a un passo dalla facile strumentalizzazione. Da finire smembrati.