E’ finita una lunga diversità

Ripubblichiamo qui l’editoriale uscito sulla prima pagina di Repubblica sabato 17 ottobre 1998, a proposito della nascita (imminente) del primo governo D’Alema.

DAL GORGO della crisi che si stava avvitando su se stessa, è dunque uscita una soluzione clamorosa, con uno di quegli scarti radicali e improvvisi che raramente la politica italiana ha conosciuto. Il preincarico a Massimo D’Alema è infatti qualcosa di più e di diverso da una semplice staffetta a Palazzo Chigi. In quel palazzo, a guidare il governo, se l’operazione andrà in porto entrerà il segretario del Pds erede diretto e legittimo del vecchio Pci, e dunque la sinistra ex comunista compirà la sua lunga storia travagliata, spezzando l’incantesimo italiano che le ha addossato spesso pesi e responsabilità, vietandole però sempre di governare in prima persona. Non sappiamo naturalmente se D’Alema riuscirà a formare il governo, se potrà proiettarlo sull’intero arco di tempo che manca alla fine della legislatura, se ce la farà a ripetere e consolidare gli ottimi risultati che Romano Prodi ha ottenuto sul piano interno e su quello internazionale. Sappiamo soltanto che, in ogni caso, dovrà ballare coi lupi, imbarcando sulla sua nave i due opposti estremismi di Cossiga e Cossutta, con il loro carico simmetrico di rigidità e imprevedibilità, ideologie e allergie, riferite a due mondi che per fortuna non ci sono più – il comunista e il democristiano – ma che soltanto in Italia continuano a pesare, indistruttibili. D’Alema va al governo proprio perché è uscito da uno di quei mondi, il comunista. CI VA NELLA forma pienamente legittima e tuttavia impropria della staffetta di metà legislatura, senza la vittoria elettorale diretta come sarebbe giusto e normale, proprio perché quel mondo è durato troppo a lungo, avviluppando la parte più grande della sinistra italiana. I comunisti italiani e i loro eredi sono rimasti esclusi fino ad oggi dalla premiership non per colpa del destino ingrato di un qualche Dio minore, di cui erano figli, come ha detto D’Alema. No: erano figli di un Dio sbagliato, come per fortuna riconoscono oggi, quel Dio che è fallito in tutto l’Est ma ha allungato fin qui la sua maledizione. Se l’incarico – qualunque sia il suo esito – è oggi possibile con tutto il suo significato simbolico, ciò si deve dunque non solo alla lunga storia di responsabilità nazionale del Pci (pensiamo agli anni del terrorismo) e del Pds, ma anche allo strappo sia pure largamente imperfetto di Berlinguer dall’Urss nel 1981, al coraggio di Occhetto di chiudere con quella storia e fondare un nuovo partito, all’impianto definitivamente riformista e occidentale di D’Alema, Veltroni e Cofferati, che ognuno nel proprio ambito hanno finalmente annullato la troppo lunga “diversità” della sinistra italiana dalla sinistra europea, chiudendo anche la stagione paludosa e ambigua del post-comunismo. Di tutto questo è simbolicamente gravato il preincarico a D’Alema. Sembra un peso politico troppo forte perché l’operazione possa fallire, anche se nulla è certo. Salvo un punto. D’Alema poteva andare al governo solo dopo Prodi, ma solo in totale lealtà a Prodi, dopo aver sostenuto per due anni e mezzo il suo ministero e dopo aver appoggiato il suo reincarico. Il leader della sinistra italiana deve già ammainare – per i ritardi e le anomalie proprie di questa sinistra – le bandiere e i canti che accompagnano le vittorie socialiste, socialdemocratiche e laburiste in Europa: ma può salire a palazzo Chigi soltanto dallo scalone d’onore, senza sgambetti e furbizie – come scrivevamo una settimana fa – dunque con il consenso di tutto l’Ulivo, in un quadro chiaro per tutti i suoi soggetti. E ieri sera infatti D’Alema ha immediatamente e pubblicamente riconosciuto che deve a Prodi (e, noi aggiungiamo, a Veltroni) la sua designazione, con un gesto di generosità che supera una stagione di fortissime incomprensioni e insofferenze reciproche, e che è comunque molto raro nella politica italiana. In realtà, a Prodi e Veltroni D’ Alema deve anche qualcosa di più: quei due anni e mezzo dell’Ulivo sono serviti ad accelerare straordinariamente i tempi e persino i modi dell’ingresso del leader Ds al Quirinale per l’incarico. Poiché non abbiamo mai creduto all’utilità politica del buonismo, pensiamo che quella di Prodi e Veltroni sia stata una forma di generosità intelligente, anche perché legittimamente interessata. Chi oggi dalle diverse sponde dell’Ulivo e della sinistra si straccia le vesti per l’accordo con Cossiga, deve sapere cosa c’era dietro il famoso angolo della sinistra italiana. Un governo istituzionale (che nemmeno Mancino voleva), spasmodicamente caldeggiato dal Polo, perché nascendo senza limiti, vincoli, identità e confini avrebbe annullato ogni segno residuo della vittoria elettorale della sinistra nel ‘96, per riportare Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini nella stanza dei bottoni: in vista, naturalmente, delle prossime elezioni del presidente della Repubblica. Al punto in cui eravamo arrivati, dopo il fallimento del Prodi-bis, cioè della continuità diretta, Prodi e Veltroni hanno pensato che D’Alema era l’unica possibilità di tenere a sinistra il bandolo della crisi, salvando almeno il centrosinistra e la sua legittimità dopo aver perduto l’intesa tra l’Ulivo e Bertinotti, il governo, la premiership e anche la maggioranza del 21 aprile. D’Alema infatti, proprio per la sua natura politica e per il suo ruolo, non può fare un indistinto “governo di tutti”. Può muoversi soltanto dentro i confini del centrosinistra. E può farlo solo da leader del più grande partito della sinistra. In più, tutto ciò avviene per designazione diretta di Prodi e dei vertici dell’Ulivo. Si conferma dunque che il tentativo D’Alema è un forte segno di continuità con l’esperienza Prodi, e con la vittoria delle sinistre il 21 aprile del 1996. La crisi e le sue possibilità di soluzione restano nelle mani della sinistra, derivano dall’Ulivo, si collegano all’esperienza Prodi, riconfermano – come avevamo chiesto fin dall’inizio – la necessità di partire dal centrosinistra e dalla sua legittimità elettorale, per allargare quel perimetro com’è necessario dopo la defezione di Bertinotti, senza però tradirlo o travolgerlo. D’Alema, appena ricevuto il preincarico, ha immediatamente parlato di centrosinistra. E finalmente, ha ottenuto da Cossiga quella parola-condizione che fino a ieri il leader dell’Udr non aveva mai pronunciato, limitandosi a mitragliare una raffica al giorno di condizioni per gli altri: la parola è, appunto, “centrosinistra”. Ora, definito l’orizzonte politico dentro il quale può muoversi il governo, si apre la lunga battaglia sul programma. Occorre che sia di centrosinistra anche questo. I democristiani dovunque dispersi devono dunque ricordarsi che un’alleanza tra popolari e sinistre non può avere come programma il manifesto dei vescovi, nonostante la perfetta sintonia di posizioni tra il giornale del cardinale Ruini e le televisioni di Berlusconi. Solo così, da un’intesa concordata tra le ragioni, i valori e anche gli interessi di tutti, si potrà parlare di centrosinistra. Il resto, sarebbe una truffa: la sinistra a palazzo Chigi per consentire nel frattempo alla Dc di ricostruire se stessa con tutta la comodità necessaria per un’operazione di tale impegno. Attraverso questo tentativo rischioso e ambizioso, si cerca quella stabilità che il Paese ha perduto, e di cui ha bisogno. Teoricamente, D’Alema si rivolge ad una base parlamentare molto larga, perché virtual
mente va da Bertinotti a Buttiglione. Bertinotti tuttavia perderà un’altra occasione storica, non scommetterà sulla sinistra italiana e sul suo futuro, sarà l’unico a preferire gli egoismi o i narcisismi di bottega alla generosità che potrebbe dare un segno diverso a questa esperienza. Cossutta che entra al governo bilancerà Cossiga, almeno sul piano dell’estetica politica, in una simmetria visiva. Sul piano pratico, siamo pronti a scommettere che i due anziani navigatori della politica italiana si troveranno spesso più alleati che divaricati, nel tentativo di condizionare il presidente del Consiglio, tarpando la crescita della sua leadership. Gran parte della scommessa di D’Alema sta proprio qui. Un pezzo della sua costituente si ribella all’intesa con Cossiga, e si capisce perché. La risposta verrà dai fatti. E la vera risposta è una vera politica riformatrice di centrosinistra. D’altra parte come non vedere che Cossiga in questa fase della sua vita è politicamente impegnato in una evidente, tacita e persino tragica manovra di inseguimento al fantasma di Moro. Solo alla resa dei conti – e il centrosinistra è il banco di prova fondamentale – vedremo se in lui ha prevalso Moro oppure Forlani. Intanto, l’ex presidente ha dovuto rinunciare a pretendere da D’Alema la dichiarazione di morte dell’Ulivo, per la semplice verità che l’Ulivo non è morto. D’Alema incaricato su designazione di Prodi ha esattamente questo significato. L’Ulivo è l’orizzonte comune della sinistra storica e dei cattolici democratici, ed è indispensabile anche sul piano elettorale. Può distruggersi non certo perché lo chiede ossessivamente Buttiglione, ma se riduce se stesso a parte e partito, contrapponendosi ai partiti, di cui è invece il completamento e l’integrazione. Infine, l’opposizione. Frustrata per essere rimasta fuori dai giochi di governo (dove avrebbe potuto immediatamente riaprire la questione-giustizia che ossessiona Berlusconi), sta pensando a proteste clamorose e inedite in democrazia, dipingendo l’incarico a D’Alema come un golpe di palazzo e denunciando il sopruso intollerabile di un comunista a palazzo Chigi. A parte il fatto che Berlusconi ha portato a palazzo Chigi i post-fascisti, senza troppe preoccupazioni di tagliare il filo di derivazione da Salò, e senza per questo che il suo governo venisse giudicato illegittimo o anticostituzionale, il Cavaliere minaccia addirittura le dimissioni in massa dei suoi parlamentari dalle Camere. Ha già risposto con chiarezza il capo dello Stato. Noi diciamo semplicemente che questa sola idea dimostra il carattere alieno dalla cultura statuale e istituzionale di Berlusconi: sarebbe più che un atto eversivo una prova concreta di sovversione, una rottura della democrazia. Non accadrà. Ma il progetto dimostra che oggi la strada di ogni riformismo possibile, la strada di un normale e moderno governo occidentale sta chiusa dentro i confini precari di quel centrosinistra che D’Alema tenta faticosamente di costruire.

Ezio Mauro