Il processo delle vergini suicide

I colpevolisti hanno ragione almeno su una cosa: le regole del processo sportivo prevedono il deferimento e la punizione anche solo per il tentativo di condizionare partite e campionati, e pertanto i giudici della Caf hanno avuto qualche ragione nel voler concludere il “processo del venerdì” nel modo a tutti noto, lasciandoci ora in attesa dell’ ”appello del martedì” previsto per il 25 luglio dopo la serie dei ricorsi.
Tuttavia, c’è più di una cosa che non torna. Non mi voglio soffermare sull’insufficiente attenzione concessa alle deduzioni difensive (anche un tentativo di imbroglio va in qualche modo provato e accertato, e si deve lasciare spazio all’accusato per poter spiegare serenamente le proprie ragioni), né sugli inaccettabili cortocircuiti tra Federazione, Caf, stampa e opinione pubblica che hanno contribuito a creare un clima da giustizia sommaria (fino al capolavoro della pubblicazione dei verdetti in anteprima sulla Gazzetta), né sulla sproporzione tra gravità degli illeciti contestati e condanne inflitte, giustificate solo da teoremi tanto arditi quanto illogici.
La questione più rilevante del cataclisma che sta travolgendo il calcio nazionale è quella relativa alla natura stessa del gioco. A che gioco hanno giocato, in questi anni, Moggi & C.? A che gioco giocavano, al contempo, le dirigenze degli altri club di serie A? Per regolamentare quale gioco esistono le leggi sportive in applicazione delle quali la Caf ha retrocesso e penalizzato Juventus, Fiorentina, Lazio e Milan?
Cominciamo dall’ultima domanda, quella alla quale è più facile dare una risposta: il “giuoco del calcio” regolamentato dalle leggi sportive vigenti non è più quello che si gioca negli stadi da qualche anno a questa parte. Non è lo sport fagocitato e metabolizzato dalla televisione di cui tutti quanti ci nutriamo dal venerdì pomeriggio al lunedì sera; non è lo sport iperprofessionistico in cui la differenza tra un quarto e un quinto posto in classifica si traduce in differenze a bilancio di milioni di euro; non è lo sport con le società quotate in borsa; non è lo sport del mercato e del merchandising globalizzato; non è lo sport che ciancia ormai da anni di superleghe europee sul modello dello sport professionistico statunitense; non è lo sport dei grandi gruppi economici che investono in squadre, sponsorizzazioni, impianti sempre più tecnologici e versatili.
Non è questione di stabilire quale dei due giochi sia migliore. Chi prospetta il ritorno ai bei tempi andati del “calcio pulito” dimentica troppe cose (i presidenti padroni, la sociologia di un’Italia stracciona, il doping dilettantesco e non per questo meno pericoloso, e, andando ancora più indietro, il legame micidiale tra calcio e regime, o anche solo la povertà del gioco prodotto in campo internazionale dai nostri club e dalla nostra nazionale), al punto da risultare colpevolmente ingenuo o in malafede.
In quest’ultimo quarto di secolo il calcio italiano e internazionale si è evoluto irreversibilmente. È diventato uno degli show più seguiti e di maggior successo sul pianeta, e ogni show si porta dietro, com’è ovvio, il suo business. Moggi & C. (e Berlusconi, e Moratti, e Abramovich, e la Fiat con gli Agnelli, e i grandi gruppi assicurativi tedeschi, e le polisportive di Madrid e Barcellona gestite come aziende dal fatturato miliardario, quali in effetti sono, e tanti altri ancora) sono nient’altro che l’incarnazione e la logica conseguenza di ciò che il calcio è diventato. Se l’atto di contattare telefonicamente un arbitro o un designatore poteva passare per inimmaginabile secondo una logica di romantico fair play negli anni Sessanta, oggi rientra nelle attività di necessarie pubbliche relazioni che ogni club non può far a meno di intrattenere con una delle componenti essenziali dello spettacolo del calcio. Immaginare che Moggi (o chi per esso) non avesse relazioni quotidiane con gli arbitri significa non avere visto né capito (o non voler vedere né capire) ciò che le dirigenze societarie e soprattutto gli stessi arbitri sono diventati in questi anni, a partire proprio da quel Collina oggi invocato come salvatore dell’italica schiatta dei direttori di gioco. Gli arbitri sono personaggi, gli arbitri sono sponsorizzati, gli arbitri compaiono in televisione a chiosare e commentare gli incontri. Tutto il resto è virginea stupefazione da madonnine infilzate, tanto più se accompagnata da un’indignazione settaria, che crocifigge Moggi e passa sotto silenzio le cene private – e non intercettate – tra i designatori arbitrali e i dirigenti dell’Inter o i Rolex omaggiati da Sensi.
Ora che cosa succederà? Ovviamente, chi nel calcio ha investito milioni di euro e la propria credibilità economica o politica non potrà far altro che lottare fino in fondo in ogni sede per tutelare i propri interessi (e i propri diritti, che ai primi dopotutto sono legati, e ignorarlo è un’altra ingenuità da vergini suicide). Ovviamente, le società coinvolte piuttosto che vedersi messe fuori gioco dal circo miliardario faranno fuoco e fiamme, e tutto il calcio italiano ne pagherà le conseguenze, al momento imprevedibili per difetto. E la sommarietà dei processi sportivi, costruiti con la paglia alla maniera della casa del primo, sprovveduto porcellino della celebre fiaba, non potrà che contribuire ad alimentare l’incendio.